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Sex., Abr.

«Ognuno su questa terra deve fare qualche cosa: e cioè percorrere con coraggio e fedeltà la via, la missione assegnatagli dal Signore. Ognuno alla fine deve poter dire: “Ho terminato la mia corsa” (2Tm 4,7)». Questo testo del Primo Maestro risale al 1933 quando, in un ciclo di meditazioni tenute nel Tempio di Alba durante 24 ore di adorazione e oggi raccolte nel testo I Novissimi meditati davanti al SS. Sacramento dell’Opera Omnia, meditava sulle realtà ultime. Aveva 49 anni.

In questo mese in cui la tradizione cristiana richiama la memoria dei fedeli defunti e alla vigilia della ormai prossima festa del beato Giacomo Alberione ci piace prendere a tema di questo breve intervento la morte nel pensiero del nostro Fondatore. Ce ne dà occasione anche la recente “scoperta” nella biblioteca della Segreteria generale dell’agenda del 1971, in cui l’Alberione annotava ogni giorno l’avvenuta celebrazione della Messa, apponendovi la firma di suo pugno. Scorrendo l’agenda si nota facilmente come, man mano che egli ci avvicina alla data del suo incontro definitivo col Maestro Divino, la sua calligrafia si intorpidisce, le lettere si deformano, la linea di scrittura si incurva. Segni di una mano che si fa via via più incerta. La morte si avvicina e lui percepisce che le forze lo abbandonano e che la vita volge ormai al termine. L’ultima Messa annotata è del 24 novembre, celebrata alle ore 5,30 nel suo appartamento, come riporta a mano qualcuno, probabilmente fratel De Blasio. Due giorni dopo renderà la sua anima a Dio.

Mi pare che il Primo Maestro abbia sempre avuto chiaro che il vero giudizio sulla propria vita viene dalla fine, e non dall’inizio e ancor meno dall’oggi. In altre parole, le scelte importanti – ma anche quelle quotidiane – vanno fatte alla luce del giudizio finale di Dio e non secondo la convenienza transeunte dell’oggi. Perché sennò (come ricorda don Licinio Galati nel suo contributo al recente libro Mirate in alto pubblicato dal Centro internazionale di spiritualità paolina) tanta insistenza sulla santità di vita, sua personale e dei membri delle Congregazioni da lui fondate, che aumentò decisamente dopo l’incontro in Vaticano del 12 luglio 1941 con Pio XII, in occasione dell’approvazione pontificia della Società San Paolo? In quell’occasione il Papa insistette molto sul fatto che ogni apostolato prende forma e vigore dalla vita interiore, ed essa «ne assicura il premio eterno per noi e per le anime».

Ci piace pensare che almeno parte di quell’assillante desiderio di santità, alimentato certamente dal “vedere le cose dalla fine”, sia stato ispirato da un grande santo, del quale don Alberione fu grande ammiratore e di cui praticò per anni gli esercizi: Ignazio di Loyola. Nel suo libro Esercizi spirituali la quarta regola per fare “una sana e buona elezione” recita così: «Devo immaginare e considerare come mi troverò nel giorno del giudizio, pensando come allora vorrei aver deciso circa la cosa presente, e osserverò ora la norma che allora vorrei aver seguito, per averne allora piena soddisfazione e gioia» (n. 187).

Veder le cose dalla fine: un esercizio semplice, una risorsa importante nel cammino di santità a cui ci sentiamo chiamati e di cui nel beato Alberione abbiamo una traccia sicura.

 

* Don Stefano Stimamiglio è il Segretario generale

Agenda Paulina

26 abril 2024

Feria (bianco)
At 13,26-33; Sal 2; Gv 14,1-6

26 abril 2024

* Nessun evento particolare.

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