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Il mistero della sofferenza

Il dolore è un fatto universale, occorre essere realisti: nell’essere umano la presenza della sofferenza è una costante. Tuttavia, lungi dall’accettarlo naturalmente, l’essere umano si ribella e, oltre ad affrontarlo come un angosciante problema, cerca di dargli una spiegazione e di superarlo in qualche modo.

Diverse culture l’hanno affrontato in maniere diverse. Dal Buddismo, che cerca di dare una risposta interiore che consenta di essere oltre il dolore, all’Occidente giudaico-cristiano che cerca non di evitare il dolore, ma di interpretarlo. Risposte insufficienti porteranno al deismo e all’ateismo.

Spesso i concetti di dolore e di sofferenza sono intesi come sinonimi; invece, sono tutt’altro che identici; infatti ci può essere dolore senza sofferenza e sofferenza senza dolore. Tante nostre sofferenze non hanno nulla a che fare con il dolore.

Uno dei primi interrogativi che affiorano è questo: da dove viene il dolore? Cos’è che lo provoca? Perché si soffre?

In alcune culture si spiegava la sofferenza con le liti tra gli dèi; oppure con spiegazioni dualistiche: ci sarebbero due forze sovrumane (una buona e l’altra cattiva) che si combattono tra loro. La sofferenza sarebbe il prodotto del trionfo della forza malvagia. L’uomo moderno, convinto di essere il giudice di sé stesso prima e, dopo, giudice di Dio, di fronte alla sofferenza umana, soprattutto degli innocenti, alza il dito accusatore verso Dio...

 

La sofferenza nella Bibbia

L’esperienza della sofferenza accompagna tutta la storia biblica al punto dì produrre addirittura un genere letterario: la lamentazione. Non come semplice sfogo, come avviene in tante culture ed esperienze umane, ma come grida del sofferente che salgono a Dio e sollecitano un intervento o una risposta.

“La Sacra Scrittura è un grande libro sulla sofferenza”, affermava san Giovanni Paolo II (Salvifici doloris, n. 6). Il libro della Genesi attribuisce al peccato l’origine della sofferenza: “[Dio] disse alla donna: ‘Moltiplicherò le tue sofferenze e le tue gravidanze, con doglie partorirai figlioli. Verso tuo marito ti spingerà la tua passione, ma egli vorrà dominare su te’. E all’uomo disse: ‘Perché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, per il quale ti avevo ordinato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con affanno ne trarrai il nutrimento per tutti i giorni della tua vita’” (Gn 3,16-17). Questa idea era stata portata all’estremo, fino a credere che qualsiasi sofferenza fosse frutto di un peccato. Gesù smentirà decisamente più volte questo concetto, ad esempio nell’episodio del cieco nato (cfr. Gv 9,2-3).

Alcuni Salmi (6.38.41.88) testimoniano la non-rassegnazione di fronte alla sofferenza, che diventa supplica a Dio per ottenere la guarigione.

Il tempo della salvezza era immaginato come tempo di abolizione di ogni sofferenza: “Allora… nessun abitante della città – afferma Isaia – dirà più: ‘mi sento male’” (Is 33,23-24). “Distruggerà per sempre la morte: il Signore Dio asciugherà le lacrime su tutti i volti” (Is 25,8).

Ma in attesa di quell’ “allora”, la sofferenza rimane e non si può evitare di dover fare i conti con essa. Naturalmente i credenti della Bibbia non potevano accettare le spiegazioni degli altri popoli: il loro Dio era unico, l’avevano sperimentato come amico e salvatore. Contrariamente all’uomo moderno, il credente biblico sa di essere “creatura”, e pertanto limitato, passibile, sottomesso alla debolezza e al dolore.

Nella Bibbia sono molti i protagonisti che, in modi diversi devono affrontare la realtà del dolore. Giobbe è il prototipo dell’uomo credente assediato e sconvolto dalla sofferenza. Di fronte alle sventure esterne, la reazione di Giobbe è colma di serenità; quando però è colpito nella sua carne, comincia a maledire la sua esistenza e a domandarsi: “perché?”. – Questo atteggiamento sarà incarnato da Gesù in croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46; cfr. Sal 22,2)–. Allora si rivela un altro volto di Giobbe: il ribelle che rifiuta ogni giustificazione religiosa e interpella e accusa Dio stesso. Poi dialoga con gli amici, i quali cercano di convincerlo che se fosse innocente, Dio non lo avrebbe ridotto così. Finalmente Dio interviene con le sue interrogazioni.

La conclusione è un atto di affidamento a Dio. Giobbe approda alla maturazione della fede. Non ha ricevuto nessuna spiegazione: ha solo intuito che è sciocco contestare Dio riguardo alla propria sofferenza. Il dolore è strumento di maturazione, di purificazione, quando è sperimentato nella fede.

Lungo i secoli, e ancora oggi, si è radicata una certa convinzione – forse presente anche nella predicazione – che in qualche modo dietro al male ci sia Dio, la sua volontà.

Il fatto è che Gesù non ha mai dato valore positivo al dolore. Di fronte alla sofferenza umana ha sempre mostrato compassione – fino alle lacrime – e tanto impegno nel volerla sconfiggere, attraverso i segni di guarigione: “Guarì molti malati di varie malattie e scacciò molti demoni” (Mc 1,34): Gesù è venuto a liberare l’uomo dai mali, fisici e interiori, che lo fanno soffrire. Questo comportamento di Gesù dinanzi ai sofferenti può correggere non poche interpretazioni sbagliate.

La sera del Getsemani, Gesù prega: “Padre, non la mia, ma la tua volontà sia fatta!” (Lc 22,42). Ecco la preghiera che è sempre stata il punto di forza del dolorismo cristiano: “era volontà del Padre che Gesù finisse sulla croce!”. Invece no, la volontà di Dio è “che tutti gli uomini siano salvi” (1Tm 2,4), che nessuno vada perduto e che Gesù suo Figlio possa dare vita a tutti quelli che si accostano a lui…, che il suo Regno venga e che dolore, morte e pianto scompaiano definitivamente. Il senso di quella preghiera di Gesù al Getsemani è questo: “Padre, la mia carne, la mia sensibilità umana, si ribella e mi porta a fuggire da quest’ora, da questa prova…; ma ciononostante io voglio che il tuo disegno di salvezza si compia, che sia il tuo Regno a trionfare e non l’impero delle tenebre… Questo io voglio, anche se ora mi costa sudore di sangue”. “Le parole della preghiera di Cristo al Getsemani provano la verità dell’amore mediante la verità della sofferenza” (Salvifici doloris, n. 18).

La Bibbia quindi non ci offre spiegazioni riguardo al dolore. Ci è offerta la possibilità di illuminare dal di dentro l’esperienza del dolore, ma non di spiegarla.

La sofferenza vissuta con Gesù è la porta stretta che conduce alla vita, e il messaggio gioioso è proprio che la sofferenza non è fine a sé stessa, ma è per la nostra salvezza che Gesù l’ha vissuta per noi, che non ci ha lasciato soli a soffrire. Gesù rappresenta “la sofferenza vinta dall’amore” (Salvifici doloris, n. 14). “E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria” (Rm 8,17).

 

“L’Apostolato della Sofferenza”

Oltre la sensibilità assunta in Seminario, Don Alberione aveva anche un riferimento in questo tema: “L’Apostolato della Sofferenza”, un’associazione tesa a svolgere un duplice apostolato: aiutare i sofferenti ad accettare e persino ad amare i propri patimenti fisici e morali come dono di predilezione di Dio, e cooperare con il sofferente alla ricostruzione delle famiglie cristiane, attraverso la formazione dei singoli membri alla scuola del Vangelo, con un attaccamento devoto e filiale al Papa.

Fondato dal venerabile Giacomo Gaglione, il 21 marzo del 1948, viene approvato come sodalizio da parte del vescovo di Caserta, Bartolomeo Mangino, il quale aveva incoraggiato il venerabile servo di Dio a costituire la fratellanza degli infermi reduci da Lourdes. Infatti, l’idea ispiratrice dell’Apostolato della Sofferenza è nata durante il primo viaggio di Giacomino a Lourdes, diciassette anni dopo l’inizio della sua infermità. Il Signore fa capire a Giacomo la missione a cui lo ha destinato: essere apostolo fra i sofferenti, missione ancor più chiara dopo l’incontro con san Pio da Pietrelcina.

L’impegno principale dei membri è l’offerta spirituale quotidiana. A questo si aggiunge il contatto personale con i sofferenti, anche epistolare quando non sia possibile l’avvicinamento personale, oltre alle pratiche di pietà abituali e la contribuzione economica per l’iscrizione, e la diffusione dell’Apostolato della Sofferenza (cfr. www.giacomogaglione.it.

 

La proposta di Don Alberione

Sono frequenti nella predicazione del beato Giacomo Alberione i riferimenti all’apostolato della sofferenza, poiché è “corona e compimento degli apostolati dei santi desideri della preghiera e del buon esempio”, afferma egli stesso.

Parlando alle Figlie di San Paolo (cfr. Alle Figlie di San Paolo 1947, pp. 400-416 e 1956, pp. 489-495), il Fondatore offre una sintesi del suo pensiero riguardo alla sofferenza e all’apostolato della sofferenza. Ovviamente, la sua dottrina risente della spiritualità del tempo, però ha dei bellissimi spunti, che ha voluto trasmettere ai suoi figli e figlie.

Inizia dal fondamento teologico: “Per la redenzione e salvezza delle anime, i patimenti di Gesù erano sufficienti, completi, sovrabbondanti; ma soltanto nel Capo. Mancavano ancora i patimenti di Gesù Cristo nelle sue mistiche membra, cioè in noi… Ed ecco come parla in proposito san Paolo: ‘Completo nella mia carne quello che manca delle sofferenze di Cristo, a vantaggio del suo corpo che è la Chiesa’ (Col 1,24). Ogni apostolo può dire: questo corpo sono io, perché sono membro di Cristo. E quanto manca alle sofferenze di Cristo devo compierlo in me, per il suo corpo che è la Chiesa”.

Il Fondatore parla poi dell’origine delle sofferenze: molte nascono da noi stessi: peccati, limitazioni, impotenza…; altre hanno origine fuori da noi: persone, notizie, situazioni… “Sono sofferenze che tutti incontriamo, più o meno.

Spiega che l’apostolato della sofferenza “consiste nell’usare la sofferenza per i fini dell’apostolato: la gloria di Dio e la pace delle anime. E afferma la grandezza dell’apostolato della sofferenza, “sommamente utile”. “Come Gesù ci ha salvato veramente colla sua passione, così noi ci dobbiamo salvare con la nostra passione. E come Gesù esercitò il suo più grande apostolato con la sua passione, così il più grande ed utile apostolato è quello della sofferenza. Chi soffre, talora non può lavorare; ma ricordiamo che non basta seminare, bisogna preparare il terreno e concimarlo: la sofferenza lo fa fecondare”.

Con grande realismo, Don Alberione consiglia: “Voi non dovete aspirare a questo apostolato, però accettate bene le sofferenze che sono inerenti al vostro apostolato…”. E conclude: “accettiamo bene le nostre croci, quelle che ci vengono dall’apostolato, dal lavoro spirituale, dall’ufficio, ecc. Vi sono poi le croci volontarie: chiudere gli occhi davanti alle vanità, chiudere il cuore agli affetti umani, affrettare i passi per arrivare presto, mortificarsi nelle facoltà dell’anima, ecc.

E incoraggia a scegliere bene queste penitenze volontarie, che devono essere in rapporto all’apostolato: “Fate intanto le penitenze comuni nel vostro apostolato, o richieste dalla vita quotidiana. Si potrebbe forse dar retta a tutti i consigli ed esortazioni sparsi in libercoli ripieni di cose teoriche, vane, o sentimentali? Non si è santi perché si è vittime! Si è santi se si ama il Signore con tutto il cuore, tutta la mente, tutte le forze, sopra ogni cosa, sempre… Lavorate intensamente nell’apostolato vostro chiedendo, anzi, al Signore la salute... Dedicatevi all’apostolato vostro con tutte le energie. La vostra offerta di vittime va fatta in questo senso”.

Un aspetto che aggiunge valore a questo apostolato: “L’apostolato della sofferenza compiuto nel silenzio è il timbro, il termometro per distinguere se gli altri apostolati si esercitano con spirito retto, veramente per amor di Dio”.

E spiega: “Nell’apostolato della vita interiore, della preghiera, vi può essere un po' di soddisfazione personale. Nell’apostolato dell’esempio e dell’azione può infiltrarsi qualche scoria di amor proprio. Ma quando un’anima è capace di soffrire nel nascondimento e forse sa sorridere benché il cuore sanguini e l’animo è in angosce, allora non c’è dubbio, si tratta di vero amor di Dio... Quando all’apostolato delle edizioni si sa aggiungere l’apostolato della sofferenza, allora si completa la redenzione: ‘Compio in me stesso la passione di Cristo’ per la Chiesa”.

Don Alberione fa delle proposte molto concrete per “esercitare questo apostolato. In primo luogo accettare sempre tutte le croci... Non andiamo a cercarci noi le croci leggermente... In secondo luogo accettarle con umiltà. In isconto dei nostri peccati: ne abbiamo commessi tanti!… In terzo luogo accettarle in penitenza dei peccati degli altri, peccati commessi con la stampa cattiva, films immorali, radio oscene...”. E: “Infine – conclude il Fondatore –, accettarle con riconoscenza; metterci proprio tutto il cuore”.

Infine il Fondatore enumera i pregi dell’apostolato della sofferenza: “è apostolato possibile a tutti, con la divina grazia. È spesso far di necessità virtù; poiché tutti hanno qualcosa da patire. È apostolato efficacissimo; perché è un associarsi al Divino Paziente, Cristo Gesù. È l’apostolato che distingue il vero apostolo dall’apostolo di nome”.

Non è difficile cogliere qui l’immediato collegamento dell’apostolato della sofferenza con un altro modo di apostolato, proposto molto spesso dal Fondatore a tutti i paolini e paoline, in particolare ai Discepoli e alle Discepole del Divino Maestro, e dopo ai membri degli Istituti paolini di vita secolare consacrata: la riparazione.

 

Conclusione

Se l’uomo di 50 anni fa poteva rassegnarsi all’idea di un Dio che manda le malattie, l’uomo d’oggi rifugge in maniera decisa da una tale visuale e ha tutte le ragioni per rifiutare una visuale di tal genere. E allora si potrebbe pensare che, nella società attuale, l’apostolato della sofferenza sia qualcosa di superato, che abbia perso senso... Tutt’altro! Bisogna però focalizzarne bene il senso.

Una spiritualità della sofferenza che era decaduta a dolorismo, che attribuisce alla sofferenza un valore in sé stessa, significa aver dimenticato la Bibbia, nella quale c’è Giobbe che ragiona in maniera ben diversa, e Gesù, Figlio di Dio, che ha sempre guarito i malati che lo accostavano, e mai si dice che abbia fatto ammalare qualcuno per volere di Dio… Dio è dalla parte di chi soffre, mai contro di lui per farlo soffrire.

È necessario che oggi passi un certo modo di vedere le cose, e si ritorni alla visione del volto di Dio che ci rivela il vangelo. È da promuovere l’immagine di un Gesù che si commuove di fronte ad ogni sofferenza umana, rivelando il volto di Dio che è per noi, non contro di noi. Un Gesù che libera gli altri dalla sofferenza, ma che non fugge di fronte alla sua, non per masochismo, ma per restare coerente con quanto ha fatto e insegnato: la fedeltà alla volontà del Padre.

Nel Nuovo Testamento non si dice mai che Cristo abbia offerto al Padre le sue sofferenze; si dice invece espressamente che Cristo offrì non qualcosa di sé (sofferenze o altro) ma “offrì sé stesso senza macchia a Dio” (Eb 9,14). Gesù non ci salvò grazie alla croce, ma per il suo amore a noi, che lo portò fino a morire sulla croce. Quindi spiritualità cristiana – sia per chi sta bene e lavora, come per chi soffre e non può fare altro – è offrire a Dio se stessi nella situazione in cui ci si trova.

Offrire il proprio lavoro potrebbe tranquillizzare la coscienza: ci si sente a posto perché è stato offerto a Dio, anche se poi si svolge con nervosismo, negligenza, arrabbiature e altro… La stessa cosa per un malato: non ha senso che offra la sua sofferenza per poi essere lamentoso e scontroso con tutti.

Offrire a Dio se stessi è ben diverso; è molto più coinvolgente, perché ci provoca ad essere coerenti con l’offerta fatta; altrimenti non sarebbe un’offerta di “soave odore” come dice san Paolo. Egli stesso conferma questo: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come un sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; come vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Quindi non il lavoro, la sofferenza o qualsiasi altra cosa… ma i vostri corpi, tutta la persona, in qualsiasi situazione si trovi. Altro che una preghiera superficiale: “Signore, ti offro questo…, ti offro quello…”. Qui è la vita reale che è coinvolta tutta intera. Questo vale per tutti, e ovviamente anche per i sofferenti.

E allora, l’offerta avrebbe sempre lo stesso valore? Che l’offerta del sofferente sia più preziosa agli occhi di Dio – o addirittura redentrice – è dovuto non al fatto che il dolore vale di più del lavoro o di qualsiasi altra esperienza umana, ma al fatto che chi soffre paga un prezzo più alto per rimanere fedele al Signore benevolo con tutti.

È l’amore, insomma, ciò che rende più o meno preziosa l’offerta che si fa di sé stessi a Dio. È qui che radica il senso e il grande valore dell’apostolato della sofferenza che, se vissuta in comunione con le sofferenze di Cristo, ci fa diventare offerta gradita a Dio per la salvezza dell’umanità. “E allora l’uomo trova nella sua sofferenza la pace interiore e perfino la gioia spirituale” (Salvifici doloris, n. 26).

 

Don José Antonio Pérez, ssp