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Ven, Mar

“Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio,
a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio;
è questo il vostro culto spirituale.
Non conformatevi a questo mondo,
ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare,
per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono,
a lui gradito e perfetto.”
(Rm 12,1-2).[1]

 

Il tema dell’XI Capitolo Generale è ambientato in ciò che tradizionalmente viene considerato come l’inizio della seconda grande parte della Lettera ai Romani, che è la sezione parenetica o esortativa (capitoli 12-15). Questo non vuol dire che il carattere esortativo di Rm sia limitato a questa “sezione parenetica”, poiché l’esortazione offre la struttura argomentativa a tutta la Lettera. Rm 12, per esempio, esorta a vivere una vita nuova, opposta esattamente alla vita descritta in 1,18-32.[2]

La maggioranza degli studiosi oggigiorno accetta che Rm si rivolge a quelli che appaiono esplicitamente come suoi destinatari, ossia, la gente delle nazioni (τὰ ἔθνη: 1,5.13; cf. 15,14-16), nonostante l’ossessione esegetica di considerare i romani non giudei come dei giudei cristiani e gentili. Paolo scrive la Lettera probabilmente a Corinto, verso l’anno 55 o 56, quando si preparava per portare a Gerusalemme la colletta che aveva fatto tra le nazioni per aiutare i poveri tra i santi (15,25-26). Scrive a persone che egli stesso non conosceva, comunità che non aveva fondato[3] con la finalità, tra le altre, di conquistare il loro appoggio, poiché la sua “funzione sacerdotale” era presentare l’offerta di tutte le nazioni a Dio, incluso quei cittadini che risiedevano nella capitale dell’Imperio. Dopo di questo, pretendeva giungere in Spagna, certamente con l’appoggio dei fratelli di Roma.

Un altro obiettivo della Lettera era chiarire ai romani la dinamica dell’agire di Dio nella storia, soprattutto in rapporto ai giudei che erano stati espulsi da Roma dall’imperatore Claudio (probabilmente nell’anno 49) e che, al ritorno sotto permesso di Nerone, erano oggetto di disprezzo da parte dei romani.[4] Paolo vuol avvertire i romani contro la logica imperiale perversa e velenosa, che iniziava a dominare tra quei seguaci di Gesù che non provenivano dal giudaismo, come se le decisioni dell’Impero definissero nella sfera divina la sorte delle persone come elette o maledette.[5] Dato il rischio che la logica del “vangelo dell’impero” dominasse la comunità dei seguaci di Gesù, Paolo avverte i romani circa il Vangelo di Gesù Cristo, che implicava nuove relazioni basate in una nuova mentalità. Esortazione, perciò, a solidarizzarsi e a entrare in comunione con i giudei che erano disprezzati e ridicolizzati.

 

Un nuovo culto, razionale

In 12,1 Paolo esorta i romani a compiere un culto “razionale”, ossia, “logico”, secondo la ragione. Questo culto o “servizio” consiste nel considerare le misericordie di Dio[6] e offrire i propri corpi come sacrificio vivo, santo e gradito a Dio. Le misericordie di Dio indicano la strategia divina, fin dalla scelta del fedele Abramo (il padre comune dei giudei e delle nazioni), al suo disegno di fare inciampare i giudei per includere tutte le nazioni nell’obbedienza fedele (cf. 9,32-33; 11,22-23.25-32). Sono misericordie che si manifestano nella storia, che hanno nella risurrezione del Figlio il punto culminante, e che inaugurano la storia della grazia guidata dal Dio che non solo ha risuscitato il Figlio, ma anche lo ha “stabilito Figlio di Dio con potere… secondo lo Spirito di santità (1,4).[7]

Il Figlio di Dio, stabilito con potere dal Padre, apriva la prospettiva di una vita nuova che esigeva anche un nuovo tipo di sacrificio. Già non si trattava più di offrire in sacrificio corpi morti di animali, ma di offrire a Dio la propria vita nella sua dinamica concreta di rapporti. A questo fanno allusione i corpi (σώματα), la corporeità, l’essere umano che si costruisce per mezzo dei rapporti comunitari e sociali.[8] La parola “corpi” appare messa in rapporto a “mente”, “modo di pensare” (νος) del versetto seguente, il che porta a pensare nella persona nella sua totalità, poiché un nuovo servizio o culto esterno (comportamento) implica una nuova realtà interiore (mentalità). Glorificare Dio con il proprio corpo (1Cor 6,20) è, inoltre, esigenza etica per quelli che adorano in spirito e verità (cf. Gv 4,23-24).

Sul linguaggio liturgico o cultuale usato da Paolo per parlare di un nuovo comportamento, vale ricordare che, prima di Claudio, l’imperatore Augusto si presentava come la pietà personificata, mediante immagini che lo ritraevano togato in posizione di offrire sacrifici. La propaganda imperiale romana semplicemente nascondeva l’ingiustizia e la barbarità della dominazione presentando l’immagine dell’imperatore pietoso che offriva sacrifici agli dei. L’invito di Paolo ai non giudei dell’ekklesia romana a presentare i propri corpi in sacrificio al Dio delle misericordie implica abbandonare l’identificazione della pietà con il potere e il privilegio, implica guardare verso i giudei, messi al ridicolo e considerati “deboli”, e accettare anche essere considerati “empi” agli occhi dell’impero, poiché la vera empietà è quella descritta in 1,18-32. L’autentica pietà passa, pertanto, attraverso il nuovo culto razionale.[9]

Questo culto, non mosso da criteri magici o fantasiosi, è la risposta che si aspetta da chi si incontra con il Dio delle misericordie, che in Gesù si rivela pienamente e santifica con il dono dello Spirito. Risposta che, nell’ambito dei corpi, si traduce in una battaglia per la giustizia: “Non mettete i vostri membri a disposizione del peccato, come armi dell’ingiustizia. Al contrario, presentatevi a disposizione di Dio, come persone vive venute dalla morte, e presentate le vostre membra come armi di giustizia (6,13)”. Questo d’altronde è il senso del “sacrificio vivo” delle nazioni, raggiunte dalla grazia di Dio e rivivificate dal suo Spirito.

Ancora sul culto razionale, è interessante notare l’uso che Paolo fa del linguaggio sacrificale in altri posti, come: “E questo a causa della grazia che mi è stata concessa da Dio, di essere ministro di Cristo Gesù tra le nazioni, adempiendo l’ufficio sacerdotale di predicare il vangelo di Dio, perché le nazioni diventino offerta gradita, santificata dallo Spirito Santo” (15,15-16); “Se il mio sangue sarà versato in sacrificio sull’offerta e la liturgia della fede che voi avete, resto ben contento e mi rallegro con tutti voi” (Fil 2,17); “Siamo per Dio il buon profumo di Cristo” (2Cor 2,14-16).

Paolo esorta all’auto-sacrificio, ad essere presentato a Dio nella materialità corporale di vittima[10], non certamente in attitudine di vittimizzazione paralizzante, ma con la coscienza dei danni che “lo schema di questo secolo” causa e dove aggroviglia le persone. Le “vittime” che si offrono a Dio lo fanno secondo un processo di rinnovamento di corpi, di relazioni materiali comunitarie e sociali, e di rinnovamento della mente, del modo di pensare, secondo il Dio che agisce con potere nella debolezza umana, facendo vincere la paura che l’offerta del proprio essere possa dispiacere o portare l’ira di Dio (cf. Ml 1,8).

 

Non modellarsi allo schema attuale…

Non lasciarsi modellare dallo schema di questo secolo[11] è riconoscere “il tempo decisivo nel quale viviamo” (13,11). Questo riguarda l’avvertimento al negativo (“non vi modellate”: μὴ συσχηματίζεσθε) in vista dell’esortazione positiva (μεταμορφοῦσθε) che segue: “siate trasfigurati” o “siate trasformati”. Sono due imperativi, il primo nella voce media o passiva, e il secondo nella voce passiva con senso riflessivo.[12] Paolo vuol avvertire i romani a non lasciarsi modellare, passivamente, da schemi diversi dal Vangelo di Gesù Cristo, propri “di questo secolo”, di un tempo corruttibile che non è quello messianico. Quindi, il Vangelo di Gesù annunciato da Paolo non è il vangelo dell’impero… Ma Paolo fa questo non nel senso di esortare ad allontanarsi dal mondo, ma di riconoscere la transitorietà del presente in vista di agire per il tempo nuovo ed eterno: “Quelli che usano di questo mondo, vivano come se in realtà non l’usassero. Poiché lo schema di questo mondo passa” (1Cor 7,31). Quelli che seguono Gesù sono nel mondo ma non sono del mondo (cf., tra altri, Gv 15,18-27).

... ma trasfigurarsi per il rinnovamento della mente

Il “ma” (ἀλλά) indica che non lasciarsi modellare o conformare allo schema di questo mondo o di questo tempo significa “lasciarsi trasfigurare” o “trasfigurarsi” (μεταμορφοῦσθε). L’immagine del bruco che diventa farfalla è forse il miglior esempio per illustrare il senso di questo verbo, che nel NT ricorre solamente qui, in 2Cor 3,18[13] e nell’episodio della trasfigurazione di Gesù (Mt 17,2; Mc 9,2). Pertanto, trattasi di non adottare l’apparenza esterna di questo mondo, ignorando i suoi meccanismi interni perversi. È esortazione a non lasciarsi affascinare dallo stile propagato dall’impero di quel tempo, e degli attuali, quali “ordine naturale delle cose” per saziarsi con il “pane e circo” (anche se questo, sostanzialmente, è esistito nei teatri della storia e non pienamente nella vita del popolo), o per vegetare in mancanza di protagonismo da parte di chi si trova cieco e sommerso nelle “fake news”. Le mode, costumi, abiti dello schema attuale richiedono trasfigurazione personale, una “metamorfosi”, un processo che permetta di cambiare a partire dal di dentro per assumere una nuova forma e apparenza, come il brutto bruco che si trasforma fino ad assumere forma nuova, nuova figura, quella della bella farfalla. In altre parole, per Paolo, assumere la stessa “forma” o “immagine” di Cristo: “Quelli che Dio in anticipo ha conosciuto, a questi ha anche predestinato ad avere l’immagine di suo Figlio, affinché il Figlio sia il primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29).

È, perciò, una trasformazione che non si effettua per degli elementi esterni, come semplicemente per l’assunzione di azioni o regole differenti, ma per il vivere della “legge dello Spirito”, il nuovo principio di vita per i fedeli. Si effettua soprattutto per il rinnovamento della mente (τῇ ἀνακαινώσει τοῦ νοὸς), ossia, per il rinnovamento del proprio modo di pensare, di riflettere, di vedere il mondo, le persone, le relazioni, rinnovamento che cambia il modo di interagire con sé stesso, con Dio e con le persone. Implica soprattutto “esaminare la propria condotta” (cf. Gal 6,4) e le conseguenze di questa condotta. Per usare un’immagine di 1Cor, equivale ad assumere una logica diversa, che non porta ad imparare e pensare secondo teorie della sapienza meramente umana, ma secondo lo Spirito del Risorto e il suo potere che si rivela nella debolezza, nella logica della croce che porta alla vita nuova della risurrezione: “L’uomo psichico non accoglie le cose che vengono dallo Spirito di Dio. Sono pazzia per lui, che non riesce capirle. Al contrario, l’uomo spirituale sa discernere tutto e non si sottomette al discernimento di nessuno. Poiché ‘chi ha conosciuto la mente del Signore, per dargli lezioni?’ Noi, però, abbiamo la mentalità di Cristo” (1Cor 2,14-16). Un nuovo modo di pensare viene accompagnato, così, dal “servizio secondo la novità di spirito” (o dello Spirito: ὥστε δουλεύειν ἡμᾶς ἐν καινότητι πνεύματος; Rm 7,6).

Il rinnovamento della mente implica assumere criteri etici con maturità, superando l’ubbidienza cieca che mantiene nella paura e non apre alle vere relazioni. “Non spegnete lo Spirito. Non disprezzate le profezie. Esaminate ogni cosa e rimanete con ciò che è buono” (1Ts 5,20). Il discernimento per sapere “ciò che è buono” non è semplice, implica impegno e comporta dei rischi. Paolo preferisce, però, correre dei rischi per ottenere delle comunità di seguaci che compiono un reale e profondo processo di trasformazione e maturazione per assumere, negli scontri con le logiche nefaste e crudeli, la mentalità di Cristo, “fino a che Cristo si formi in noi” (cf. Gal 4,19), espressione paolina così cara a Don Alberione.

La questione, infatti, è scoprire “ciò che è buono” secondo la logica della vita nuova nello Spirito (descritta in Rm 8). Nelle parole di Paolo che seguono il lemma dell’XI Capitolo Generale: sapere “distinguere qual è la volontà di Dio, la buona e gradita e perfetta” (δοκιμάζειν ὑμᾶς τί τὸ θέλημα τοῦ θεοῦ, τὸ ἀγαθὸν καὶ εὐάρεστον καὶ τέλειον). Paolo avverte contro lo “schema di questo mondo”, ma non è che possa offrire dettagliatamente ciò che sarebbe il “nuovo schema per i seguaci di Gesù”. La sua esortazione indica uno stato permanente di apertura mentale, di costante discernimento, non per accettare qualsiasi cosa nuova, ma per esaminare continuamente le cose[14] e assumere l’attitudine del discepolo che impara sempre dal Maestro: “Imparate da me” (cf. Mt 11,25-30), togliendo dal “tesoro” della propria mente “cose nuove e vecchie” (Mt 13,52). E questo affinché “lo spirito, l’anima e il corpo di voi si conservino integri e irreprensibili per la venuta di nostro Signore Gesù Cristo” (1Ts 5,23).

Possiamo trovare un’indicazione di ciò che è “gradito a Dio e perfetto” in 14,18-19: in una comunità nella quale i romani disprezzavano e ponevano in ridicolo la minoranza giudaica con la sua Legge e costumi, Paolo esorta a smettere di giudicare gli uni gli altri per camminare nell’amore, poiché la pratica dell’amore mette il fedele in una posizione di onore davanti a Dio e in posizione di approvazione davanti alle persone (cf. 14,18). E dato che la “metamorfosi” è un processo continuo nella vita del fedele, “dovunque siamo arrivati, manteniamo la stessa direzione” (Fil 3,16), occupandoci “in tutto ciò che è vero, tutto ciò che è nobile, tutto ciò che è giusto, tutto ciò che è puro, tutto ciò che è amabile, tutto ciò che è degno di essere amato, tutto ciò che è lodevole, che sia virtuoso e degno di riconoscimento” (Fil 4,8), vivendo come “amici della croce di Cristo” (cf. Fil 3,18).

Sono molti, anzi, i brani che parlano della trasformazione e rinnovamento che il Risorto provoca nel fedele, come 2Cor 4,16.18: “Anche se il nostro esterno si va disfacendo, il nostro interiore si rinnova di giorno in giorno… Non fissiamo lo sguardo sulle cose che si vedono, ma verso quelle che non si vedono. Poiché quelle che si vedono sono passeggere, e quelle che non si vedono sono eterne”. E Col 3,9-10: “Voi vi siete svestiti dell’uomo vecchio e delle sue azioni, e avete rivestito il nuovo, che per la conoscenza si rinnova ad immagine del suo Creatore”.

 

Camminare con gli oppressi

La trasfigurazione che significa il rinnovamento della mente, l’assumere gli stessi sentimenti del Signore Gesù nel tempo presente, è descritta da Paolo anche come “attesa ansiosa della redenzione del nostro corpo” tra i gemiti e la sofferenza dei “dolori del parto” (il gemito della creazione di Rm 8,18-27). I doni di Dio sono irrevocabili. Anche la sua chiamata al popolo eletto e la chiamata a tutte le nazioni sono irrevocabili. Noi siamo già stati salvati per la speranza; il nostro corpo, però, aspetta ancora la redenzione e soffre con tutta la creazione i dolori di parto. La vita nuova nello Spirito apre ad una nuova dinamica, ma siamo ancora limitati, non pienamente liberi dagli schemi, dalle logiche di questo mondo. Nelle parole di N. Elliot, non sempre i cristiani crescono nella “coscienza del rischio seduttore dell’aria ideologica che respiriamo”[15], l’aria seduttrice della “civiltà della ricchezza” che produce miseria, tanto oggi come nella propaganda imperiale del primo secolo a Roma. Sono come i semi dello Spirito, molti dei quali schiacciati dalla logica sistemica del potere e del lucro, che per la fede crediamo che diventeranno frutti di vita nel futuro.

Paolo parla dell’attività dell’azione potente e rinnovatrice dello Spirito in un mondo che opprime le ansie genuinamente umane e solidali, che esalta il potere e scarta i deboli dopo aver succhiato le sue poche risorse, in modo tale che alle volte “neppure sappiamo ciò che conviene chiedere” (Rm 8,26) a questo Spirito che viene in soccorso alla debolezza. Il rinnovamento della mente, infatti, è un processo che fa rivedere anche il contenuto e la qualità della nostra preghiera.

Trasfigurarsi per il rinnovamento della mente implica ascoltare la voce dello Spirito nel “gemito della creazione”. Mediante categorie apocalittiche, Paolo annuncia ai romani dell’Impero il “giorno” venturo e prossimo del Messia, il Signore, portando un nuovo ordine, un nuovo schema, una nuova figura dell’essere umano. Era una storia alternativa alla logica della guerra, del dominio e della “pace con il circo”. Tutta la sua esortazione va in questo senso. La “venuta imminente” del Signore obiettivamente non è successa, ed oggi inavvertitamente si può facilmente inquadrare Paolo come un fantasioso apocalittico. Ma “forse la più importante lezione che dobbiamo trarre dal pensiero apocalittico di Paolo è l’intuizione che il vero futuro del mondo non sorgerà dai progetti e dagli strumenti dell’ordine attuale”[16]. Insomma, quel che Dio ha realizzato nel Figlio Risorto è stato molto di più che alleggerire le pene delle trasgressioni: egli ha inaugurato per i giudei e per tutte le nazioni dell’Impero un nuovo dominio, il “regno della grazia” (cf. 5,21).

Come si manifestava questo regno della grazia nel presente di Paolo e come si manifesta nel nostro presente dice soprattutto in riferimento al “servizio” razionale, il culto gradito a Dio da persone trasformate nelle relazioni concrete (“corporali”) a partire dal rinnovamento del modo di pensare e agire. Non per merito o potere personale, ma lasciando agire lo Spirito che trasforma e rinnova. Da questo risulta che per incamminarsi verso il nuovo “schema” dei tempi messianici è fondamentale ascoltare lo Spirito, poiché facilmente si può ignorare la voce dello Spirito nel “gemito della creazione” vivendo, per esempio, “come se i poveri non esistessero”, nell’espressione di J. Sobrino.[17]

“La Lettera ai Romani è il tentativo di Paolo di contrastare gli effetti dell’ideologia imperiale dentro le congregazioni romane. Cerca di riorientare le loro percezioni attorno ad una prospettiva scritturistica più autenticamente giudaica, che in questo caso significa una prospettiva più comunitaria appropriata alla pratica di una ‘civiltà della solidarietà’”.[18] Accingendosi a scrivere ai romani, come già detto, Paolo si preparava per andare a Gerusalemme per consegnare l’“offerta delle nazioni” ai poveri tra i santi. È la esteriorizzazione pratica dell’esortazione che Paolo fa in 12,16: “Abbiate gli stessi sentimenti gli uni verso gli altri, senza pretesa di grandezza, ma facendo cammino con gli oppressi” (τοῖς ταπεινοῖς συναπαγόμενοι). La sua campagna di aiuto economico internazionale in favore dei giudei poveri a Gerusalemme punta esattamente nella direzione del cammino che Paolo ha voluto fare insieme ai più piccoli, gli oppressi e sofferenti, nella direzione di una civiltà alternativa, contro l’alienazione dell’assumere l’ideologia dell’impero e accontentarsi con un quietismo politico pio.[19]

Il culto razionale di chi si pone nel cammino dell’obbedienza fedele a Dio passa così per l’offerta di se stesso nel servizio a Dio e ai fratelli, per il rinnovamento della mente nel crogiolo del discernimento, verso uno schema nuovo, non di questo secolo o tempo. Può darsi che sia uno schema che possiamo chiamare utopia, un “non-tempo”, una vita degna e giusta per le maggioranze e per tutti, che lo Spirito sta generando. O eutopia, il buon luogo, il mondo nuovo dove abiteranno i salvati per l’obbedienza fedele, quelli che al presente fanno il cammino con gli oppressi e sofferenti, senza lasciarsi dominare dalla logica sistemica dominante che continua a produrre vittime sacrificate al potere, al prestigio e alla ricchezza. Il rinnovamento della mente è il superamento costante degli schemi di un mondo ingiusto, schemi che integrano più schemi in tanti livelli, personali, comunitari e sociali; superamento che avviene grazie a una spiritualità impegnata nell’“incorporamento”, cioè, che implichi relazioni concrete dei corpi e delle menti.

Finalmente, il testo di 1Pt 2,5, rivolto probabilmente alla fine del primo secolo a degli stranieri e migranti che soffrivano preconcetti e maltrattamenti dai nativi, mette in risalto il tempo nuovo oggetto dell’esortazione di Paolo: “Voi anche entrate come pietre vive nella costruzione di una casa spirituale e formate un sacerdozio santo, che offre sacrifici spirituali, graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo”. Per i romani ai quali Paolo ha scritto e per noi oggi, il nuovo culto gradito a Dio, la trasfigurazione per il rinnovamento della mente, richiede apertura allo Spirito Santo, affinché lui agisca con potere nella nostra debolezza. In maniera che nel setaccio del nostro discernimento siano presenti i minori, tanto i giudei della Roma di allora (se ci situiamo come destinatari di Rm), quanto i rifugiati del nostro tempo, i milioni che oggi muoiono di fame, gli esclusi e scartati dalla logica di mercato. Un cammino che non sia con loro, i minori (Rm 12,16), sarà lontano dall’essere un cammino che ha come principio la vita nuova dello Spirito, la vita di trasfigurazione permanente per il rinnovamento della mentalità.

 

 

 

[1]      Testo greco:

Παρακαλῶ οὖν ὑμᾶς, ἀδελφοί, διὰ τῶν οἰκτιρμῶν τοῦ θεοῦ
παραστῆσαι τὰ σώματα ὑμῶν θυσίαν ζῶσαν ἁγίαν εὐάρεστον τῷ θεῷ,
τὴν λογικὴν λατρείαν ὑμῶν·
καὶ μὴ συσχηματίζεσθε τῷ αἰῶνι τούτῳ,
ἀλλὰ μεταμορφοσθε τῇ ἀνακαινσει το νος
εἰς τὸ δοκιμάζειν ὑμᾶς τί τὸ θέλημα τοῦ θεοῦ,
τὸ ἀγαθὸν καὶ εὐάρεστον καὶ τέλειον.

[2]      Bultmann caratterizza la forma di esortazione utilizzata da Paolo in Rm, comune nelle prime chiese, come lo schema “prima… ma ora”, enfatizzando la vita nuova per opera del battesimo. Cf. R. Bultmann, Theology of the New Testament, Charles Scribner’s Sons, New York, 1950, pp. 105-106.

[3]      Non ci sono dei dati sicuri sulla fondazione e la composizione della comunità dei seguaci di Gesù a Roma, e qui non entreremo nella questione. Una delle ipotesi è che alcuni dei “romani in transito” a Gerusalemme a Pentecoste (At 2,10) siano ritornati e abbiano dato inizio al primo nucleo di seguaci.

[4]      Disprezzo attribuito da W. Wiefel a correnti antigiudaiche nella società più ampia, correnti che nulla avevano a vedere con la questione del rigetto del “Vangelo” dai giudei (cf. “The Jewish Community in Ancient Rome and the Origins of Roman Christianity”, in K. P. Donfrield, org., The Romans Debate, Hendrickson, Peadbody, 1991, p. 100).

[5]      Cf. N. Elliott, A arrogância das nações: A Carta aos Romanos à sombra do Império, Paulus, São Paulo, p. 219.

[6]      Nella propaganda imperiale, la clemenza era l’indulgenza mostrata dall’imperatore “benevolente” verso i suoi sudditi indegni. “La clemenza era la pratica della ‘moderazione verso un nemico vinto, pur che non si trattasse di uno ricalcitrante o abominevole (…) ma sottomesso alla pax romana’” (Karl Galinsky, Augustan Culture, Princeton University Press, Princeton, 1998, pp. 82-85, cit. in Neil Elliott, op. cit., Paulus, São Paulo, 2010, p. 183). Nerone, probabilmente nel 54 d. C., nell’epoca in cui Paolo ha scritto Rm, vuol mostrare clemenza permettendo il ritorno dei giudei a Roma. In pratica, però, quel che si vedeva era la natura parassita dell’economia imperiale romana, nelle istruzioni che dava ad un governatore di provincia appena nominato: “Tu conosci le mie necessità! Fai in modo che nessuno resti con nulla!”. Impossibile che Paolo non abbia in mente la reale “clemenza” dell’imperatore quando avverte i romani sull’autentica misericordia, che si trova nel Dio di Israele.

[7]      Interessante ricordare che Nerone aveva convinto il Senato a concedere al già morto Claudio gli onori divini, in modo che Nerone diventasse, come gli imperatori che l’avevano preceduto, divi filius (“Figlio di Dio”). Nerone non ha voluto associare la sua vita con quella di Claudio, non ha messo in risalto il proprio stato di divi filius, accontentandosi di permettere ai poeti di salutarlo come “il proprio Dio” (ipse deus: Calpurnius Piso). Cf. Goodman, The Roman World, 44 BC-AD 180, Routledge, Londra e New York, 1997, p. 55.

[8]      Ovviamente molte considerazioni si potrebbe fare qui in rapporto al “corpo”, mettendolo in rapporto per esempio alla natura sensoriale dell’essere umano che lo porta a peccare (cf. Köllner ed altri). Raccomando, però, la lettura del § 3.2 (Soma) di J. Dunn, La teologia dell’apostolo Paolo, Paideia, Brescia, 1999, pp. 78-84, che propone l’idea di “corporamento”: “Quando esorta i credenti di Roma a ‘offrire i vostri corpi in sacrificio’, certo Paolo non li spinge a offrire braccia e gambe su un altare sacrificale! La sua esortazione significa piuttosto che essi devono offrire se stessi, come si evince … dal parallelo con 6,13.16 […] L’equivalente dell’impegno d’Israele espresso nel sacrificio rituale era la loro dedizione espressa nei loro rapporti corporati” (p. 81).

[9]      Il “culto razionale” e la “metamorfosi per il rinnovamento della mente” di Paolo (assumere un servizio a Dio che sia razionale e passare ad un cambiamento completo a partire dal di dentro) sono due esempi del suo sforzo retorico di mescolare idee specificamente cristiane con quelle giudaiche e elleniste. Cf. J. P. Sampley (org.), Paulo no mundo greco-romano: um compêndio, Paulus, São Paulo, 2008, p. 556.

[10]    Il verbo del contesto sacrificale utilizzato (παραστῆσαι) fa pensare alla parola “sacrificio” (θυσίαν) nel senso di “vittima sacrificale”.

[11]    Paolo lavora con i concetti del tempo messianico. Il presente (τῷ αἰῶνι τούτῳ, “questo secolo”, “questa era”) precede il tempo messianico che sta per venire e si contrappone ad esso a causa del suo corso di corruzione.

[12]   I prefissi di ambedue i verbi (σύν e μετα) sono riflessivi, e nell’NT μεταμορφόω sempre occorre nella voce passiva. Le forme verbali indicano la dinamica delle azioni in relazione ai soggetti: allo stesso tempo l’impegno personale dei fedeli e l’attività dello Spirito nella loro vita. Per quanto riguarda i radicali dei verbi, c’è chi cerca la distinzione tra σχῆμα e μορφή. “Schema” si riferirebbe all'aspetto esterno, l'apparenza, mentre “forma” all'interno. Si potrebbe dire: la forma è il motore dello schema, nonostante una certa artificialità in questa distinzione.

[13]    “E noi tutti, a viso scoperto, contemplando come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasfigurati in questa stessa immagine, di gloria in gloria, dalla azione dello Spirito del Signore”.

[14]    Il verbo δοκιμάζειν infatti implica la prova per la propria esperienza, e può essere tradotto per “imparate praticando” o “distinguete per la pratica concreta” la volontà di Dio.

[15]    Neil Elliott, op. cit., p. 304.

[16]    Id, ibid.

[17]    “Extra pauperes nulla salus”. Cf. J. Sobrino, No Salvation Outside the Poor: Prophetic-Utopian Essays, Orbis Books, New York, 2008.

[18]    N. Elliott, op. cit., p. 291.

[19]    L’opera di Davina C. Lopez, Apostle to the Conquered: Reimagining Paul’s Mission, Fortress Press, Augsburg Fortress, Minneapolis, 2010, è esempio di lavoro che cerca di ripensare la missione di Paolo come apostolo delle nazioni sconfitte e colonizzate.

Agenda Paolina

29 Marzo 2024

Passione del Signore (viola)
Astinenza e digiuno
Is 52,13–53,12; Sal 30; Eb 4,14-16; 5,7-9; Gv 18,1–19,42

29 Marzo 2024

* SSP: 1947 a Santiago de Chile (Cile).

29 Marzo 2024SSP: D. Felipe Gutiérrez (2004) - Fr. Natale Luigi Corso (2014) • FSP: Sr. Teresa Bianco (1995) - Sr. Guglielmina Oliboni (1995) - Sr. Mansueta Chiesa (2005) - Sr. Lucia Migliore (2007) - Sr. Carla (Clelia) Ferrari (2012) - Sr. Mary Bernadette Fitzgerald (2020) - Sr. Maria Carmen Conti (2020) • PD: Sr. M. Cornelia De Toffoli (1996) - Sr. M. Veritas Montecchio (2017) • IGS: D. Michele Sarullo (1993) • IMSA: Giuseppina Sanfilippo (2009) - Rosetta Budelacci (2022) • ISF: Egidio Pitzus (1997) - Giovanni Sticca (1997) - Antonietta Turco (1997) - Isabel Sabugo (2002) - Giovanni Italiano (2011).