Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me (Gal 2,20).

L’esperienza spirituale come pellegrinaggio di cristificazione per una mistica apostolica del Più dell’Amore.

(Fabrizio Pieri)

 


 

Desideriamo entrare nella nostra riflessione facendo riferimento alla considerazione fondamentale che la Teologia Spirituale, come ogni specializzazione della Teologia, ha la Sacra Scrittura come sua anima (cf DV 24 e OT 16).

L’oggetto formale della Teologia Spirituale sappiamo essere rappresentato dalla Esperienza spirituale cristiana.

         In questa ottica ed in questo ambito crediamo importante studiare e sottolineare proprio il modo specifico e peculiare con il quale la Sacra Scrittura di fatto descriva e rifletta su questa esperienza spirituale cristiana.

        Alla luce di questo orizzonte propongo una descrizione della Teologia Spirituale come:

Studio teologico del cammino esperienziale di crescita e maturazione trasformante del credente nel Dio che si rivela e si autodona (cf DV, 2)

         In questo modo credo che risulti evidente che il suo oggetto formale sia rappresentato dall’esperienza spirituale vissuta nella fede, che si realizza come esperienza di un incontro con il suo conseguente e relativo bisogno di accoglienza e ricettività, e quindi di profonda libertà interiore.

 

 

PRIMA PARTE

LA TEOLOGIA SPIRITUALE: UN CAMMINO ESPERIENZIALE DI CRESCITA E MATURAZIONE TRASFORMANTE

 

  1. L’esperienza spirituale personale del credente cristiano

 

        Ogni esperienza spirituale[1] vissuta nella fede è caratterizzata fondamentalmente da un incontro ed una relazione tra l’io di Dio e l’io dell’uomo. Questa esperienza rappresenta e forma il costituente primario di un rapporto relazionale profondo dell’uomo con Dio vissuto personalmente dentro una comunità di credenti in pellegrinaggio verso il Regno.

        Il credente cristiano è, così, chiamato a vivere questo incontro con Dio, che rappresenta la base fondamentale per essere in un’autentica esperienza di vita spirituale. Questa vita spirituale implica la presenza e l’operatività delle risonanze profonde degli effetti dell’incontro del Tu umano con il Tu divino che portano ad un itinerario di fede autenticamente vissuta come esperienza di affetto e di risonanza profonda del cuore, che aprono la riflessione sui campi significativi ed interessanti della Teologia affettiva e di quella che sant’Ignazio nelle Costituzioni della Compagnia di Gesù chiama la scuola dell’affetto.[2]

        La vita spirituale[3] dei singoli è la base, ed in qualche modo, il “principio e fondamento” di questo itinerario di crescita e maturazione cristificante di persone uniche originali ed irripetibili.

        Questa vita spirituale che cresce, progredisce e si consolida in una profonda maturazione personale non è quella rappresentata e caratterizzata dall’immagine di un sovrumano sforzo ed un impegno ascetico per incontrare Dio.

       La luce e la dinamica del dato contenutistico della Rivelazione biblica ci comunicano, al contrario e con forza che è invece Dio, il Signore che viene a noi.  

        Solo in Lui è presente l’origine e l’iniziativa libera, sovrana e gratuita del voler comunicare la vita dello Spirito. E’ Lui che, come Pellegrino, viene continuamente e pienamente incontro ad ogni uomo, Tu relazionale per eccellenza dell’Io di Dio.  

        Tutto questo avviene tramite gli incontri con le altre persone, gli avvenimenti e le circostanze di tempo e di luogo.

        Dio, in questo modo unico e sublime, vive la sua autodonazione ed autocomunicazione della sua vita divina nello Spirito verso ciascuna persona, ognuno di noi.

        Purtroppo, dobbiamo subito constatare che è l’uomo, il credente, incapace di essere in questa relazione personale profonda perché fondamentalmente non è libero e liberato per incontrare e relazionarsi con il Dio, “che era che è e che viene” (Ap 1,8), sempre viene nella sua vita.

        Invece si verifica che nell’esperienza di accoglienza e recezione l’uomo, spesso, non è interiormente libero nei confronti del Tu relazionale di Dio, ed è schiavo e morbosamente attaccato ai propri gusti, capricci, pregiudizi, alle proprie sovrastrutture, inibizioni, al proprio amor proprio ed al proprio egoismo.

        Da questo quadro e da questa analisi emerge chiaramente che la vera e più autentica icona della vita spirituale fondata, sull’esperienza spirituale, che si consolida ed evolve dinamicamente verso una pienezza di maturità trasfigurante, è quella vissuta e sperimentata nella luce e nella forza dell’agire e del prendere l’iniziativa da parte di un Dio, che in Gesù Cristo, “sempre viene”, e che cerca e richiede una collaborazione da parte del Tu relazionale dell’ uomo, che deve liberarsi da ogni ostacolo, barriera,  pregiudizio e sovrastruttura, che abbia il potere di bloccare ed interrompere l’irrompente amore e la vita e la potenza di Dio perché si possa essere sempre più liberi e liberati per Dio e profondamente disponibili alla presenza e all’azione divina operante in noi.

        Questa attitudine esperienziale dell’accogliere e ricevere la gratuità e libertà del Dio che viene costituisce nel profondo di ogni singolo credente quella libertà interiore (nelle due dimensioni di “libertà da” e “libertà per”) che possiamo e dobbiamo considerare come la pietra angolare e la base fondamentale della vita e dell’esperienza spirituale cristiana.

 

  1. L’esperienza spirituale nasce e matura nell’essere silenzio

        Una prima riflessione che è necessario formulare è che non ci può essere vero incontro relazionale personale, che apra ad una comunione con Dio e con i fratelli che non nasca, cresca e si consolidi nel silenzio.

        Ogni incontro relazionale profondo e personale, che costituisce l’essenza della preghiera, nasce dalla capacità dell’uomo, maschio e femmina creato ad immagine e somiglianza di Dio, di diventare ed essere Silenzio ed ascolto discernente il passaggio di Dio, Amore Amante Amato (cf il leb shomea‘ di 1 Re3, 9.12).

        Ogni momento di incontro con il Signore è un tempo forte, un periodo che deve creare in noi e far vivere in noi una sempre più profonda maturità della Persona di Gesù.

        Cristo deve vivere in me, così che risulti, in questo lento e graduale cammino di cristificazione, l’ “uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,24).

       Vogliamo e dobbiamo entrare in un clima che crei e generi in noi l’essere silenzio per permettere alla Parola di farsi carne nella totalità ed integralità del nostro essere (cf il metodo dell’integralità alberioniano).[4]

        Dobbiamo allora divenire un silenzio amante[5]

adorante,

fecondo,

creativo:

un silenzio eloquente.

        Dobbiamo divenire un silenzio di essenzialità e di libertà per permettere alla Parola di mettere le tende dentro di noi (cf Gv 1,14) per essere noi trovati in Lui.

Ecco allora l’invito del salmo 37,3:

 

“Sta’ in silenzio e spera in lui”

 

in una quiete totale,

in una ricettività pura,

in un totale far spazio alla Parola, che diviene stato di resa amante e totale e profondo disarmo interiore.

 

        Dobbiamo stare in silenzio in un abbandono confidente e semplice.

        Il credente deve chiedere al Signore di divenire ed essere questo silenzio creativo nelle risonanze della propria mente, della propria volontà e del proprio cuore per creare dentro di ciascuno “l’uomo spirituale che ha il pensiero di Cristo” (cf 1 Cor 2, 16) perché si fa circoncidere il cuore nella meditazione della Parola “spada a doppio taglio” (cf Eb 4, 12-13), consapevole con Paolo che “la fede dipende dall’ascolto e l’ascolto dipende dalla Parola” (Rm 10,17), e aprendosi agli spazi infiniti dell’Amore lo aiuta a mettere ordine nella mia vita e a scegliere ed eleggere il “più dell’amore”: il frammento nuovo della volontà personale di Dio di cui rivestirsi.

 

 

SECONDA PARTE

Alcuni Testimoni nell’AT e nel NT

 

1.L’esperienza spirituale di Abramo: un pellegrinaggio dal profondo della propria identità.

L’inizio dell’avventura dell’autorivelazione di Dio si fa parola appellativa pressante nella vita e nell’esperienza spirituale di Abram, che nel suo itinerario di ricerca si vede interpellato a settantacinque anni dal lek leka di Dio, che lo chiama e provoca a vivere un pellegrinaggio nella propria interiorità per condurlo in una fuori uscita da sé verso la terra dove scorre latte e miele della Sua volontà.

Questo pellegrinaggio è caratterizzato da quattro tappe fondamentali che ricordiamo e sintetizziamo velocemente[6]:

 l’invito rivolto da Dio ad Abram  a lasciare la propria terra in Gen 12, 1-4, l’esperienza della berît, dell’alleanza, in Gen 15, la risposta alla berît nel rito della circoncisione (mûlah) e del cambio del nome in Gen 17 ed infine l’esperienza drammatica e trasfigurante della salita sul Moria per l’offerta sacrificale di Isacco, frutto della promessa di Dio al vecchio Abramo in Gen 22.

 

  1. L’esperienza spirituale di Giobbe: Ti conoscevo per sentito dire ora i miei occhi ti vedono per quello che sei (Gb 42,5)

            Attraverso il mashal di Giobbe siamo chiamati a penetrare nell’itinerario spirituale dell’incontro-scontro dell’uomo di sempre con la libertà e la gratuità dell’Amore provvidente di Dio, che rivendica il proprio governo (‘esah) ed il proprio diritto (mishpat) sul Creato.

            Il pellegrinaggio dell’ uomo Giobbe è un itinerario, che attraverso il mistero della prova, come lo definisce il Cardinal Carlo Maria Martini[7], giunge a vivere il senso profondo della relazione con il Tu trascendente ed immanente di Dio nella logica della gratuità e dell’essenzialità per cui l’affermazione iniziale del prologo in cui Giobbe si esprime con le famose parole: nudo uscii da seno di mia madre e nudo vi ritornerò…il Signore ha dato il Signore ha tolto sia benedetto il nome del Signore (Gb 1,21) trovano, attraverso il cammino dialogico del libro il vertice in quella resa di abbandono vera e profonda di fede, che permette a Giobbe di sperimentare la visione e l’orizzonte di Dio e trovare in questo il vero senso pieno del suo essere e vivere secondo la propria dignità creaturale, che si caratterizza nel pellegrinaggio del raggiungimento sapienziale della propria e peculiare bontà di vita[8].

 

  1. L’esperienza spirituale di Giovanni: la relazione personale del discepolo amato

       L’esperienza spirituale, nucleo fondamentale nella quale ogni credente cristiano è chiamato a crescere nel suo rapporto personale ed originale con il Signore, il Dio di Gesù Cristo, può essere anche delineata e descritta fenomenologicamente in modo migliore, se permettiamo alla riflessione biblica di donarci qualche suo precipuo e specifico contributo di approfondimento teologico e spirituale.

        L’esperienza spirituale neotestamentaria, e specificamente giovannea e paolina, possono donarci un notevole contributo per proseguire questo nostro studio contemplativo.

        Giovanni vive il suo rapporto di fede e di sequela del Signore come un’esperienza forte di intimità e di amore d’amicizia nei confronti della Persona amica di Gesù.

        La fede per Giovanni non è far propria una dottrina oppure speculare su una serie di idee. Non è un puro e semplice processo conoscitivo intellettuale[9].

        Il conoscere giovanneo dell’esperienza di fede coincide ed è il “conoscere” biblico ebraico. Lo “jada‛ [10]. E questo conoscere si caratterizza di una forte esperienza e di un forte sentire sponsale ed amicale.

        E’ la conoscenza dell’intimità dell’Altro, del pervenire nello spessore più profondo dell’essere dell’altro. E’ un’esperienza di unione, di affettività unitiva, che trasfigura i due in una nuova entità e realtà.

        Paolo sintetizza questa conoscenza del Cristo, che lo ha conquistato (cf Fil 3,12) nel celebre versetto del capitolo 2 della lettera ai Galati:

 

Sono stato crocifisso con Cristo, non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che io vivo nella carne la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me”.

 

Χριστῷ συνεσταύρωμαι· ζῶ δὲ οὐκέτι ἐγώ, ζῇ δὲ ἐν ἐμοὶ Χριστός· ὃ δὲ νῦν ζῶ ἐν σαρκί, ἐν πίστει ζῶ τῇ τοῦ ⸂υἱοῦ τοῦ θεοῦ⸃ τοῦ ἀγαπήσαντός με καὶ παραδόντος ἑαυτὸν ὑπὲρ ἐμοῦ.

 

        Questa fede diventa, così, un cammino di adesione personale alla Persona di Gesù, il Cristo, il Verbo Amico incarnato e presente in ogni mio “qui ed ora”.

        Credere diviene, così, l’esperienza neotestamentaria, portata a compimento e pienezza (cf Mt 5, 17), dell’esperienza presente vissuta dai protagonisti dell’Antico Testamento.

        Credere per l’Antico Testamento è sintetizzato dal verbo ‘aman.[11] E’ l’abbandono fiduciale come l’albero, che si radica nel terreno e diffonde le sue radici nelle profondità del suolo e non è piegato da nessuna avversità, e viene nutrito e rinvigorito dall’humus del terreno profondo (cf Ger 17, 7-8; sal 1).

        E’ l’esperienza vissuta da Abramo in Genesi 15, che per questa fede fiduciale “crede sperando contro ogni speranza e gli viene accreditato come giustizia” (Rm 4, 18).

        Anzi è oggetto della conoscenza affettuosa e colma d’amore di YHWH, il suo scudo (Gen 15, 1), che lo porta a divenire protagonista e destinatario del patto di alleanza che Dio stipula e taglia con lui ( karat berît).

        Dio imbandisce il rito nomadico e passa in mezzo alle bestie uccise e divise invocando su di Sé la morte se non rimarrà fedele alla sua berît.[12]

 

9 Gli disse: “Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un colombo”. 10 Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all'altra; non divise però gli uccelli. 11 Gli uccelli rapaci calarono su quei cadaveri, ma Abram li scacciò.
12 Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono. 13 Allora il Signore disse ad Abram: “Sappi che i tuoi discendenti saranno forestieri in una terra non loro; saranno fatti schiavi e saranno oppressi per quattrocento anni. 14 Ma la nazione che essi avranno servito, la giudicherò io: dopo, essi usciranno con grandi ricchezze. 15 Quanto a te, andrai in pace presso i tuoi padri; sarai sepolto dopo una vecchiaia felice.
(Gen 15,9-15)

 

        Abram va, uccide gli animali, li divide, li colloca una metà di fronte all’altra metà, è il rito dell’alleanza secondo le usanze della popolazione locale nomadica. Il capo nomade in questo rito passava attraverso questi animali uccisi e diceva: succeda a me quello che è successo a questi animali se non sono fedele a questa alleanza.

        Dio vuole che Abram gli prepari questo rito perché sarà Lui a passare in mezzo agli animali uccisi, non sarà Abram, è YHWH il Dio provvidente e abisso di carità.

        E’ il Vivente che sta per scommettere sulla propria morte se non sarà fedele.

        E’ interessante che si parli di una tortora e di un piccione che non vengono divisi: La tortora e il piccione non erano animali sacrificali, erano fuori dal rito tout court, ma la tortora e il piccione sono simboli di fecondità, quindi il Vivente che scommette e si butta in questa Alleanza vuole passare anche attraverso questo piccione e questa tortora non divisi per far capire ad Abram che lì si fa sul serio: è una Paternità feconda, ben oltre il fatto che Sarai sia sterile e lui sia oltremodo avanti in età! Brillano della giovinezza dell’eternità di Dio e quindi tutto è possibile a Dio!

Mentre il sole stava per tramontare un torpore cadde su Abram, quando tramontato il sole si era fatto buio, ecco un forno fumante e una fiaccola ardente passarono in mezzo agli animali divisi. (v.17)

 

        Abram è chiamato da Dio a percepire e gustare, come dice Ignazio, che non è il molto sapere che sazia l’anima ma sentire e gustare le cose internamente...  (EESS, 2).

   Dove si sentono e si gustano le cose internamente? Nella quiete contemplativa di un tramonto, di un tramonto non solo spazio temporale, ma dell’eterno tramonto, il momento più bello: il Vespro. Abram sente e gusta le cose del suo Signore in lui internamente e questo è il suo sonno, il suo tardemah.  

        E solo così, si può ascoltare in piena profondità quel versetto con cui si conclude questo capitolo. In quel giorno Dio concluse questa Alleanza con Abram: alla tua discendenza io darò questo paese.(v.18)

        Qui è necessario fare riferimento alla potenza dell’ebraico, che ha una espressione tecnica importante, bellissima: Dio non conclude questa Alleanza ma “taglia” l’Alleanza con Abram. Questa espressione tecnica per l’alleanza civile e sociale, qui assume sempre di più nell’AT un significato amicale, tanto è vero che la stessa espressione la troviamo pari pari in 1 Samuele 18,3,  quando Gionata fa alleanza con Davide come suprema amicizia, e così in Gv 15,13 troviamo: “Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per l’amico” e in Gv 15,15: “Io vi ho chiamati amici!”.

        Allora l’amicizia, quella vera, l’amicizia dell’Alleanza, è una caratteristica fondamentale di Dio. Dio è Amico, è Amicizia, è Amore in quanto Amore di amicizia. Il tagliare alleanza con Abramo significa dirgli quello che si dice  in Giacomo 2,23: “Abramo credette e gli fu accreditato come giustizia e fu chiamato Amico di Dio”.

 

        L’esperienza di fede di Giovanni[13] si inserisce e porta a compimento tutto questo. Giovanni, il discepolo amato[14], che pone il proprio orecchio sul cuore del Verbo Amico è l’icona del credere amante del discepolo: Gv 13, 25[15]:

 

“Ora, uno dei discepoli, quello che Gesù amava si trovava a tavola a fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: ‘Di’ chi è colui a cui si riferisce? Ed egli reclinatosi così sul petto di Gesù, gli disse. ‘Signore, chi è?”

 

        E’ un riposo d’amore reciproco. L’uno è per l’altro consolazione, pace, gioia, rinvigorimento fino a che l’amante è nell’Amato trasformato.

        Il cuore di Giovanni diviene il cuore di Gesù. Il cuore di Gesù diventa il cuore di Giovanni.

        E’ il cammino che dobbiamo incarnare e fare nostro perché l’esperienza di fede sia un’esperienza di unificazione, integrazione e maturazione della mia persona nella Persona di Gesù, il Verbo che vuole farsi carne della mia carne.

        L’icona di Gv 13,25 diventa una nuova penetrazione ed immersione nel mistero di sequela e di fede con un nuovo riferimento al versetto 26 di Gv 19:

 

“Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala. Gesù, allora, vedendo la madre e lì accanto il discepolo che egli amava, disse alla madre: ‘Donna, ecco il tuo figlio…”

Giovanni guarda l’Amato amico da Amante amico per essere nell’Amato trasformato. Si permettono di essere se stessi in quel noi fecondo e comunionale, che apre le porte a Gesù e a Giovanni per realizzare in pienezza la loro missione.

        Giovanni permette al Gesù amico di aderire perfettamente al legno della croce, gli dà il coraggio. Guardandosi e contemplandosi saranno riandati con la memoria contemplativa a quelle “Quattro del pomeriggio” dove l’Agnello di Dio, che passava, chiamò con il suo silenzio d’amore:

 

 “Che cerchi?

Maestro, dove abiti?

Vieni e vedi!”  (cf Gv 1, 39).

 

        Ecco l’ Agnello ha portato Giovanni qui sul Golgota a gustare ed imprimere ogni spasimo gioioso dello sgozzamento del suo Amico Agnello perché questo “imprinting” definitivo ed indelebile divenga, quasi inesorabilmente, l’ispirazione delle parole dell’Apocalisse, che diventeranno il suo nuovo essere, il suo nuovo programma di vita. Essere l’Amico dell’Agnello Pastore (Ap 7, 17): essere il sacramento dell’Agnello Pastore per la Chiesa madre in Maria. E si sente veramente beato perché sono giunte le nozze dell’Agnello e la sua sposa è pronta (Ap 19, 9). E lui è chiamato per l’eternità ad imbandire il banchetto dell’Agnello Amico. “Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue”.

Giovanni è ormai Gesù e Gesù è Giovanni.

           

        La terza tappa del cammino di fede di Giovanni è in Gv 20,2:

 

“Maria di Magdala corse allora ed andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava e disse loro:’Hanno portato via il Signore e non so dove lo hanno posto!”

 

        Giovanni corre la mattina di Pasqua, insieme a Pietro, verso il sepolcro vuoto, fa entrare per primo Pietro vede il lenzuolo ripiegato e crede: vede e crede perché rimane permanentemente nel cuore del suo Signore e Maestro…!!!

        Cerca e trova Dio in tutte le cose. E’ un vero contemplativo nell’azione, consapevole che la “realtà è Cristo” (Col 2, 17).

 

        La quarta tappa è in Gv 21,7:

 

“Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro. E’ il Signore…”

 

        “E’ il Signore”: Giovanni lo riconosce. Non si può sbagliare. Il suo cuore freme, ripensa ancora a quella scena sul Calvario. Ha visto Gesù dissanguarsi a poco a poco. Ha visto l’infinità e la concretezza della Sua amicizia. Lui c’era non aveva nulla da difendere, da salvare, lì c’era il suo tesoro.

Non si può sbagliare ora Gesù è il suo Amico e Fratello. Hanno la stessa Madre…!!!

Sono carne della stessa carne, e tutta questa sua carne freme: E’ il Signore…!!!

 

        La quinta tappa è rappresentata dai versetti 21,20.22:

 

Pietro allora, voltatosi, vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si era trovato al suo fianco e gli aveva domandato: ‘Signore, chi è che ti tradisce?’.

Pietro dunque, vedutolo, disse a Gesù: ‘Signore, e lui’.

Gesù gli rispose: ‘Se voglio che egli rimanga finché‚ io venga, che importa a te? Tu seguimi’.

 

        L’amicizia, che Gesù dona a Giovanni non ammette la gelosia o lo sguardo ambiguo, fatto di mormorazione, meschinità, sotterfugi degli altri.

        Gesù invita Pietro  a vivere in pienezza il suo rapporto unico ed irripetibile con Lui senza pregiudizi o sentenze sommarie sul Suo rapporto con Giovanni.

        Gesù garantisce la fecondità di quel rapporto con Giovanni come con gli altri avocando, però, a Sé la voglia ed il desiderio di manifestare questo amore e questa sua amicizia come, nella Sua libertà, meglio crede di attuare perché è quella stessa libertà, che è salita sulla croce per Tutti.

        Anzi Gesù sembra dire a Pietro. Godi per questo mio rapporto, che c’è tra Giovanni e me perché come ogni mio atto è fecondo anche da questo scaturisce per te una carica salvifica ancora, paradossalmente più potente, rinforzata da dono reciproco di due libertà che si uniscono per il bene di Molti…!!!

 

  1. Gli elementi dell’esperienza relazionale giovannea: i verbi e gli elementi di questa esperienza spirituale (1Gv 1,1-4)[16]

        Alla luce di Gv 13, 25 il porre l’orecchio sul cuore di Gesù per Giovanni significa aver vissuto e realizzato il compimento del suo pellegrinaggio di fede e di amore, che lo ha portato a vedere Gesù e rimanere in Lui.

        Questo rimanere è il termine ultimo dell’esperienza di fede di Giovanni.

        E’ un atto di fede, che diventa un permanente sperimentare un rapporto personale di amore fiduciale[17].

        Giovanni ama e si fida di Gesù. Gesù ama e si fida di Giovanni. Giovanni crede e rimane nell’amore di Gesù.

        E questo amore lo porta a conoscere sempre più nell’essere profondo di Gesù, che è la Parola che fonda, motiva, matura, completa e perfeziona la sua Persona ed il senso profondo del suo essere.

        Giovanni si specchia e si ascolta come il luogo del compimento della corsa gloriosa della Parola, che ha sete di lui. (cf 2 Ts 3, 1).

        Ecco, allora, come nell’inizio della sua prima lettera ci regala la sintesi esistenziale di questo suo percorso e cammino di penetrazione e di ascolto amante del Verbo, che costituisce e caratterizza la sua adesione a Lui, perché : “la fede dipende dall’ascolto e l’ascolto dipende dalla parola” (Rm 10, 17).

 

Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita  (poiché‚ la vita si é fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché‚ anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione é col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo.

Queste cose vi scriviamo, perché‚ la nostra gioia sia perfetta. (1Gv 1,1-4)

 

“Ciò che era fin da principio…ossia il Verbo della Vita”

        La fede dipende dalla Parola. Questo per Giovanni significa sperimentare che il Gesù Parola, che Lui incontra, è allo stesso tempo, il Logos Creatore e la Sapienza di Dio, ma anche il rêma, la parola efficace e dinamica, vitale ed effervescente.

        Giovanni sperimenta che la Parola è per lui il Logos, che dà il senso profondo alla sua vita: è la roccia stabile su cui fondare la sua vita, ma è anche lo stimolo a non fermarsi mai, ma sentire che è una parola dinamica, che non finisce mai di dissetare e di soddisfare la sua sete di conoscenza e di amore.

        E’ un rapporto centripeto e centrifugo, come l’ Amore della Trinità. I Tre si amano e più si amano più si aprano all’ Amore.

        In più, questa Parola, che nella sua dinamicità si fa carne della mia quotidianità, si fa Pane eucaristico. Il Logos diviene:

 

“Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete” (Gv 6, 35)

 

        C’è il rapporto con una Parola, che si fa pane del cammino, fino a raggiungere all’invito trasfigurante del Logos eucaristico:

 

“chi mangia di me, vivrà per me” (Gv 6, 57).

 

 “Ciò che abbiamo udito”[18]

        Per vivere questo Giovanni evidenzia il suo cammino caratterizzato da quattro  atteggiamenti e disposizioni di tutto il suo essere.

        Il primo è “ascoltare”, che nella logica biblica significa semplicemente, ma sostanzialmente, farsi tutto orecchio…!!! (cf Bar 2,31)

        Essere orecchio, capace di ascoltare, significa diventare un cuore capace di ascoltare e divenire la Parola generandola e incarnandoLa.

        Ascoltare è divenire la Parola, è generare la Parola, è permetterLe di vivere: “crescere in età, sapienza e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2, 52).

        L’ascolto del Logos è condizione necessaria e sufficiente per essere nella Vita.

        La domanda che viene spontanea è quella di provocare la propria esperienza spirituale sull’interrogativo esistenziale riguardo al tipo di ascolto che ognuno di noi possa essere?

       Per rispondere adeguatamente a questo quesito è necessario confrontarci con la Parabola del seminatore.

        Prendiamo il testo caratteristico, secondo la versione del vangelo di Luca nel suo capitolo 8 lo accogliamo nel testo greco e nella traduzione della Conferenza Episcopale Italiana del 2008:

 

11 Ἔστιν δὲ αὕτη ἡ παραβολή· Ὁ σπόρος ἐστὶν ὁ λόγος τοῦ θεοῦ. 12 οἱ δὲ παρὰ τὴν ὁδόν εἰσιν οἱ ⸀ἀκούσαντες, εἶτα ἔρχεται ὁ διάβολος καὶ αἴρει τὸν λόγον ἀπὸ τῆς καρδίας αὐτῶν, ἵνα μὴ πιστεύσαντες σωθῶσιν. 13 οἱ δὲ ἐπὶ τῆς πέτρας οἳ ὅταν ἀκούσωσιν μετὰ χαρᾶς δέχονται τὸν λόγον, καὶ οὗτοι ῥίζαν οὐκ ἔχουσιν, οἳ πρὸς καιρὸν πιστεύουσιν καὶ ἐν καιρῷ πειρασμοῦ ἀφίστανται. 14 τὸ δὲ εἰς τὰς ἀκάνθας πεσόν, οὗτοί εἰσιν οἱ ἀκούσαντες, καὶ ὑπὸ μεριμνῶν καὶ πλούτου καὶ ἡδονῶν τοῦ βίου πορευόμενοι συμπνίγονται καὶ οὐ τελεσφοροῦσιν. 15 τὸ δὲ ἐν τῇ καλῇ γῇ, οὗτοί εἰσιν οἵτινες ἐν καρδίᾳ καλῇ καὶ ἀγαθῇ ἀκούσαντες τὸν λόγον κατέχουσιν καὶ καρποφοροῦσιν ἐν ὑπομονῇ.

18 βλέπετε οὖν πῶς ἀκούετε· ὃς ⸂ἂν γὰρ⸃ ἔχῃ, δοθήσεται αὐτῷ, καὶ ὃς ⸀ἂν μὴ ἔχῃ, καὶ ὃ δοκεῖ ἔχειν ἀρθήσεται ἀπ’ αὐτοῦ.

 

11 Il significato della parabola è questo: Il seme è la parola di Dio.

12 I semi caduti lungo la strada sono coloro che l'hanno ascoltata, ma poi viene il diavolo e porta via la parola dai loro cuori, perché‚ non credano e così siano salvati.

13 Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, accolgono con gioia la parola, ma non hanno radice; credono per un certo tempo, ma nell'ora della tentazione vengono meno.

14 Il seme caduto in mezzo alle spine sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita e non giungono a maturazione.

15 Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza.

18 Fate attenzione dunque a come ascoltate; perché‚ a chi ha sarà dato, ma a chi non ha sarà tolto anche ciò che crede di avere”.

(Lc 8, 11-15.18)

 

v.12 I semi caduti lungo la strada sono coloro che l'hanno ascoltata, ma poi viene il diavolo e porta via la parola dai loro cuori, perché‚ non credano e così siano salvati.

        La logica della strada sta a significare la “logica diabolica” del nostro essere e del nostro cuore, dove dopo l’ascolto superficiale e schizofrenico viene il diavolo e porta via la Parola dai nostri cuori.

        L’etimologia greca del termine diavolo è quella che rimanda al verbo bàllo: gettare, che qui è unito alla preposizione dià, che indica il significato della dispersione e della confusione.

        Il diavolo è il destrutturatore ed il disperdente la nostra persona, che non è capace di unificare il suo essere centrandosi sul Tu relazione della Parola…!!!

       Il contrario è rappresentato, sempre nel vangelo di Luca, dal verbo sýmballo, che significa l’esatto contrario: è quel centrarsi ed unificarsi nel Tu relazionale della Parola, così come Luca descrive Maria in 2, 19:

 

“Maria, da parte sua, conservava tutte queste cose meditandole nel suo cuore (symballoûsa en tê kardìa autês)”

 

v.13 Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, accolgono con gioia la parola, ma non hanno radice; credono per un certo tempo, ma nell'ora della tentazione vengono meno.

        La logica del terreno con la pietra rimanda, nel testo di Luca, alla dinamica della tentazione (cf kairòs toù peiràsmou), come il momento in cui l’ascolto e l’accoglienza della Parola viene meno.

        E’ interessante ricordare allora come il mistero della prova possa essere il luogo sottile e subdolo, in cui il “non ascolto” è portato  lentamente e progressivamente a compimento.

 

        La parola del Siracide ci ricorda nel capitolo 2 invece che:

1 Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione.

2 Abbi un cuore retto e sii costante, non ti smarrire nel tempo della seduzione.

3 Sta' unito a lui senza separartene, perchè‚ tu sia esaltato nei tuoi ultimi giorni.

4 Accetta quanto ti capita, sii paziente nelle vicende dolorose,

5 perchè‚ con il fuoco si prova l'oro, e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore.

6 Affidati a lui ed egli ti aiuterà; segui la via diritta e spera in lui.

 

v.14 Il seme caduto in mezzo alle spine sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita e non giungono a maturazione.

        La sottolineatura lucana del terreno spinoso, che accoglie la Parola, è caratterizzata dalla sagace descrizione che a causa del sopraffare delle preoccupazioni della ricchezza e dei piaceri della vita, questo seme non giunge a maturazione.

        Il greco di Luca si esprime con il verbo telesphoréo: letteralmente non giunge al suo fine al suo scopo, alla perfezione.

        Gli affanni (merimnài), che soffocano questa Parola rimandano immediatamente al testo di Luca del capitolo 10, dove nei versetti 38-42 è raccontato il famoso episodio dell’accoglienza di Gesù da parte di Marta e Maria nella loro Casa di Betania, dove la risposta di Gesù al rimprovero di Marta perché rimproveri Maria che l’ha lasciata sola a servire è di questo tenore:

 

“Marta, Marta, tu ti preoccupi e Ti agiti per molte cose: (merimnãs perì pollà).”

 

v.15 Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza.

 

     La dinamica del terreno buono è quella del trattenere con cuore buono e perfetto la Parola per portare frutto con la perseveranza.

        Nei testi paralleli e sinottici di Matteo e Marco si ricorda la gradualità di questa produzione di frutto con la perseveranza. Il trenta, il sessanta, il cento: quasi a ricordarci la bellezza della logica graduale e progressiva del nostro assimilarci nel Verbo, che ci porta, passo dopo passo, ad una reale e trasfigurante cristificazione (cf Mt 13,23 e Mc 4,20).

        Il monito finale di Luca: “Fate dunque attenzione a come ascoltate” è dunque quello di fare profonda attenzione al nostro essere ascolto perché è necessario in ogni nostro “qui ed ora” diventare il luogo santo dove, come Maria, questa Parola si compie, si realizza e si incarna nella nostra originalità ed irripetibilità…!!!

        Ascoltare la Parola significa, poi,  anche divenire un cuore capace di essere discernimento. Capace di leggere vedere ed interpretare le cose alla luce delle risonanze, che la Parola suscita in noi:

 

Concedi al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male…” (1 Re 3, 9)

 

        Il discernimento e la scelta della novità devono portare ad un continui processo di crescita della vita dello Spirito.

        Una sempre più profonda integrazione di desideri, sentimenti, reazioni e scelte per giungere ad un’attitudine esistenziale e permanente di totale affidamento nella sequela di Cristo.

        “Cercare e trovare la volontà di Dio” significa “ascoltare e rispondere alla Parola di Dio qui ed ora”.

        La Parola di Dio, come Tu relazionale, mi è rivolta in Gesù e si fa storia attraverso quell’ insieme di “circostanze di tempo, di luogo, e di persona”, che vagliate ed interpretate, alla luce della Parola, divengono il luogo e l’occasione per penetrare sempre di più nel mistero personale della volontà del Padre sulla vita di ciascuno e aderirvi in piena libertà e con grande generosità (cf EESS, n.5).

        Così l’ascolto del Verbo della Vita, nella Sua valenza profonda di Parola appellativa, diviene un elemento fondamentale del discernimento spirituale per la propria maturazione e crescita personale nella vita dello Spirito a vantaggio della Comunità:

 

“Non dobbiamo mai essere sordi alla sua chiamata, ma sempre pronti e disponibili a compiere la sua volontà” (EESS, n.91).

 

“Ciò che abbiamo veduto con i nostri occhi”[19]

        “Vogliamo vedere Gesù” (Gv 12, 21). Gesù si fa vedere e vuole essere visto con i nostri occhi.

        Vuole essere oggetto di una vista di esperienza d’amore.

        Questo è il culmine del cammino di Giobbe:

Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono per quello che sei   (Gb 42,5)

        Vedere, fissare lo sguardo. E’ desiderare l’amato del cuore, è sperimentare:

 

    I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli (Lc 2, 30-31)

 

        Questo vedere, che è sperimentare, ha una particolarità.

         In greco vedere si dice orào, un verbo politematico, che nella sua formulazione del perfetto terzo usa una radice che significa “conoscere” (oìda): “ho visto, quindi, so”.

        La conoscenza sponsale dell’esperienza di fede è racchiusa qui.

         Io vedo, quindi, conosco la Parola Sposo, e divento un tuttuno con Lui (cf 1 Cor 6, 17).

 

“ciò che noi abbiamo contemplato”[20]

        Contemplare è penetrare nel mistero, è divenire “Colui che contemplo”.

Non a caso è la tappa centrale e fondamentale della lectio divina[21].

        Finita la lectio e la meditatio si sta semplicemente nel riposo rinvigorente della presenza del Verbo della Vita, che è presente in quel frammento di Scrittura.

        Ed è questa esperienza forte e semplice di stare in Lui, di rimanere in Lui, di essere in Lui, che mi spinge a vivere, quasi fisiologicamente il Contemplata aliis tradere di Tommaso d’ Aquino.

        Ti do, Ti comunico semplicemente, ma intensamente, la mia esperienza di amore e di conoscenza del Cristo, Verbo della Vita.

 

“e ciò che le nostre mani hanno toccato”

        Il verbo che Giovanni usa, come in Lc 24, 39, è il verbo palpare (psêlaphao) concreto e minuzioso.

        Come noi possiamo palpare oggi il Verbo: “sentendo e gustando le cose internamente”.

        E’ sperimentare un tatto spirituale profondo, che è fatto di consolazione e di desolazione: quando il Verbo mi incendia il cuore aumentando la mia fede, la mia speranza, e la mia carità o quando il Verbo permette la desolazione

        Su questa dinamica è interessante soffermarsi e riflettere sull’esperienza di Ignazio di Loyola, che il santo basco annota con attenzione e precisione nelle due serie di “regole per il discernimento degli spiriti” negli Esercizi Spirituali.

 

“questo scriviamo perché la nostra gioia sia perfetta”

        Questa esperienza di fede e di amore spinge ad essere “i collaboratori della gioia degli altri” (cf 2 Cor 1, 24).

        “Ho visto il Signore, Ho incontrato il Signore” e ci porto gli altri emanando il “buon profumo di Cristo” (cf 2 Cor 2, 16), che siamo e stiamo sempre più diventando…!!!

 

  1. L’ icona biblica di riferimento dell’esperienza spirituale di cristificazione: Gal 2,20

        L’esperienza spirituale caratterizzata dal sentire giovanneo provoca e tocca ogni discepolo nella sua esperienza spirituale credente.

        La riflessione tratta dalla spiritualità giovannea la possiamo integrare nel desiderio di trovare una nuova icona, che rappresenti questa dinamica relazionale profonda dell’esperienza spirituale. Questa immagine iconica ce la vuole donare Paolo di Tarso condividendo con noi il suo vissuto esperienziale relazionale ed unitivo con il Gesù che lo ha conquistato (cf Fil 3,12).

 

Il testo-esperienza di Paolo[22]

 

Sono stato crocifisso con Cristo, non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che io vivo nella carne la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me”.

 

“Sono stato crocifisso con Cristo”

        Nella logica del perfetto che Paolo usa (synéstaurōmai): “sono stato crocifisso con Cristo” e rimango “crocifisso con Cristo in ogni mio qui ed ora”.

        Essere crocifisso significa entrare nella logica esperienziale di Rom 6, 6-7.

 

Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui perché fosse distrutto il corpo del peccato e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto , è ormai libero dal peccato.

 

        Essere crocifisso e rimanere crocifisso diventa allora un cammino di liberazione dal peccato, dal difetto predominante come cammino di cesellatura della nostra coscienza:

 

“rinnovatevi nello spirito della vostra mente” (Rom 12,2)…!!!

 

        Così possiamo vivere la logica di Ef 4, 20-24. Crocifiggere l’uomo vecchio, significa spogliarsi dell’uomo vecchio:

 

con la condotta di prima l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera.

 

        Le passioni ingannatrici sono concretizzate nell’elenco di Gal 5, 19-21 (le opere della carne):

 

  • Fornicazione
  • Impurità
  • Libertinaggio (v.19)
  • Idolatrie
  • Stregonerie
  • Inimicizie
  • Discordia
  • Gelosie
  • Dissenzi
  • Divisioni
  • Fazioni (v. 20)
  • Invidie
  • Ubriachezze
  • Orge e cose del genere (v. 21)

 

E nell’ottica di Gesù: (Mc 7,20-22)

 

Quindi soggiunse:”Ciò che esce dall’uomo quello contamina l’uomo”. (v. 20)

Dal di dentro (esōthen) dal cuore degli uomini escono le intenzioni cattive:

 

  • Fornicazioni
  • Furti
  • Omicidi (v. 21)
  • Adulteri cupidigie
  • Malvagità
  • Inganno
  • Impudicizia
  • Invidia
  • Calunnia
  • Superbia
  • Stoltezza (v.22)

 

        Spogliarsi dell’uomo vecchio significa immergersi in un cammino di purificazione e circoncisione del cuore, della mente e della volontà, fatto di ascolto della Parola, che è come una spada a doppio taglio che penetra nelle giunture e nelle midolla (cf Eb 4, 12).

        Rivestirsi dell’uomo nuovo significa accogliere l’invito di Paolo ai Col:

 

Rivestiti come amati di Dio santi e diletti di sentimenti di misericordia, di bontà, di mansuetudine, di pazienza (Col 2,12-13).

 

        Essere crocifisso significa, anche, crocifiggere i propri falsi io in un cammino di libertà libera, liberata e liberante.

        Non c’è bisogno di essere molto esperti in psichiatria, in psicologia per sapere che noi abbiamo la libertà del nostro essere nell’io profondo, nell’ io vero, nel cuore, dove abita la verità della mia speranza che mi fa libero. E allora io mi devo liberare dai miei “io” preconfezionati, dai miei “io” ideali, e dai miei “io” attuali, cioè quelli che io mi fabbrico, e che non sono veri e dai miei ideali che io mi invento e che servo in maniera idolatrica, in maniera quindi di schiavitù.

        Libertà da questi “io” inventati da me per giungere al vero io profondo, dove abita il Cristo, mia libertà, fonte, principio e fondamento della speranza della mia vocazione. 

 

“Non sono più io che vivo”

        “Non sono” significa accettare il paradosso dell’attentato alla partecipazione dell’ ‘Eyeh asher ‘eyeh di Es 3,14. L’io sono colui che è che era e che sarà

 

        In At 22,3 Paolo difendendosi a Gerusalemme dice:

 

“Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaiele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi”

 

        Questo, da una parte significa avere una profonda e vera capacità contemplativa della vita, ma dall’altra parte significa vivere ed incarnare la capacità esistenziale di considerare skýbala[23] (Fil 3,8) tutto il nostro essere e la nostra storia:

 

Se qualcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura al fine di guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. (Fil 3, 5-9)

 

        E’ necessario considerare le circoncisioni risposta alla berit[24] di Dio sterco.

        Considerare la preghiera come combattimento e resa d’amore come Giacobbe sterco[25].

        Considerare l’avventura del cammino della fraternità ritrovata come sterco[26] perché conquistati da Gesù Cristo (Fil 3,12).

        Così si passa dall’ Io idolatrico, saccente, arrogante, autonomo, autarchico all’ Io kenotico dello spogliamento e dello svuotamento di Fil 2,6-8:

 

Cristo Gesù pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio. Apparso in forma umana umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.

 

        Che si fa capacità di rivestirsi dei sentimenti di Cristo, della mente, del cuore, della volontà di Cristo (cf Fil 2,5) ed entrare nel clima della pagina esperienza di Giovanni 13, 1-17.

 

 

       

 

“ma Cristo vive in me”

        Nel riprendere la nostra riflessione sul testo paolino di Gal 2,20 siamo invitati a giungere, attraverso questo ascolto profondo e trasfigurante, a vivere un’autentica esperienza di fede, di speranza e di amore che ci permette di vivere un’esperienza spirituale davvero cristificata, in cui il Cristo vive la sua originalità nella mia originalità.

        Fabrizio si cristifica, Cristo si “fabrizizza”.

        Cosicchè il Cristo:

 

  • Vive (Fil 1,21)
  • Pensa (1 Cor 2,16)
  • Opera (Gal 2,20)
  • Ama (2 Cor 5,14)                                             IN ME [27]
  • Vuole (At 22,10)
  • Prega (Rom 8,26-27)
  • Soffre (Fil 1,29)
  • Muore (Gal 2,19b;Rom 6,6)
  • Risuscita (2Cor 5,17)

 

 

“Questa vita che io vivo nella carne”

        E’ l’esperienza della vita nella carne eucaristica. Non più una vita nella carne di peccato, ma l’ invito forte ed appassionato di Paolo alla vita nella carne, che diventa la carne dell’offerta del corpo. “Questo è il mio corpo”, come libertà liberata, che si dona per liberare molti nel “più dell’amore”.

        “Divento carne e do me stesso da mangiare” (cf “Date loro voi stessi da mangiare: Mt 14,16) nella logica della prevenzione dell’amore delicato, tenero e raffinato (cf Fil 1,9).

 

 

“Che mi ha amato e ha dato se stesso per me”

        La cristificazione diventa partecipazione all’essere amore d’amicizia eucaristico: “Non c’è amore più grande di questo dare la vita per gli amici” (Gv 15,13).

        Si giunge a donare il proprio “io profondo” nell’ “io profondo” Di Gesù che lo dona ogni momento per me. E’ il cammino dell’esperienza spirituale cristificante come conformazione trasfigurativa e quindi sostitutiva.

        Così si entra, attraverso questo ascolto cristificante, nell’Apostolato della vita interiore eucaristica e cristificata.

        L’apostolo diviene ed è un ostensorio che contiene Gesù Cristo e spande una luce ineffabile intorno a sé la luce che viene dalla perenne conversione (cf 2 Cor 4,6)[28].

 

 

 

 

 

  1. La Cristificazione come esperienza di Mistica apostolica nel Più dell’Amore in Paolo[29]

        L’esperienza di unione d’amore di Paolo con Cristo, che chiamiamo itinerario di cristificazione, è un pellegrinaggio di conoscenza e di trasformazione ontologica, che permette a Paolo di donarci la prima autentica testimonianza cristiana di quella esperienza di unione mistica trasformante e trasfigurante, che poi sarà vissuta nell’originalità ed irripetibilità propria da numerosi testimoni nella Storia della santità cristificata della Storia della spiritualità cristiana.

        Crediamo che sia possibile tracciare un quadro sintetico dell’itinerario spirituale di Paolo di Tarso considerando come l’Evento di Damasco possa aver caratterizzato l’inizio di un passaggio di conversione e trasformazione ontologica, che abbia permesso a Paolo di giungere a vivere ed incarnare quello che lui descrive autobiograficamente in Fil 1,21: “Per me vivere è Cristo e morire un guadagno”, e questo si caratterizzi per essere l’esperienza fondante e fondamentale, una sorta di Principio e Fondamento, della sua relazione intima e trasfigurativa con il Signore Gesù come Amore Nudo Crocifisso e Risorto.

       Paolo si incammina in questo itinerario di unione trasfigurativa, che lo porta a desiderare di conoscere solamente il Cristo, suo Signore e Questo Crocifisso (cf 1Cor2,2 e Fil 3,8).

         La conoscenza che Paolo sperimenta e vuole sempre più sperimentare, come abbiamo già visto, è quella caratterizzata dalla semantica esistenziale dello jada‘ ebraico, che implica e porta con sé la stessa esperienza di amore unitivo della sposa e dello sposo del Cantico dei Cantici.

          In questo modo anche per Paolo è sperimentabile e vivibile la stessa dinamica della ferita d’amore (cf Ct 2,5; 5,8), che lo porta a vivere sempre più quella immedesimazione trasfigurativa e sostitutiva con il suo Signore, che lo fa pervenire a desiderare di dare compimento a ciò che dei patimenti di Cristo manca nella sua carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa (cf Col 1,24) chiedendo di vivere quella piena e totale koinonìa con le sue sofferenze (cf Fil 3,8).

         La Staurofania dell’Evento di Damasco diviene, in questo modo, la presenza in Paolo dell’Io kenotico Crocifisso e Risorto di Cristo, che entra sempre più dentro di lui e gli chiede di dilatare il suo cuore e tutto il suo essere nel suo stesso essere Amore, che si dona fino alla fine e si consegna per la salvezza di ogni uomo.

         La Passione di Gesù è la Passione di Paolo. Il Mistero Pasquale di Gesù è il Mistero Pasquale di Paolo. Paolo così vive quell’esperienza unitiva d’amore con Gesù, che lo introduce e lo fa vivere di quella mistica che lo fa apostolo del Cristo perché questo Amore unitivo e trasfigurativo di Cristo lo possiede e lo spinge (cf 2Cor 5,14).

       Crediamo che non sia casuale ed accidentale che questa affermazione Paolo la depositi nella Seconda Lettera ai Corinti, che è il testo più mistico dell’Epistolario paolino, come ci ricorda Romano Penna[30].

        Allora l’esperienza mistica di Paolo è indissolubilmente legata al suo essere “apostolo ed ostensorio di Cristo”.

         Padre Charles Andrè Bernard nel suo libro del 2000[31], edito dalla San Paolo, conferma e ribadisce questa tesi, che facciamo profondamente nostra: Paolo è mistico ed apostolo. E noi osiamo aggiungere è: apostolo perché mistico…!

         Questa espressione potrebbe con facilità introdurci nel tema dell’affinità di Ignazio di Loyola con Paolo di Tarso, che il Fondatore della Compagnia di Gesù rivendica già nel 1532 in una lettera al fratello Martìn da Parigi, dove era studente, dopo l’esperienza di Loyola e di Manresa.

         Questa affinità ci introduce, quindi, nello spessore di un esperienza comune seppur distinta della originalità dei due santi di una mistica apostolica, o come la chiama Padre Maurizio Costa, del servizio [32], che può far dire al Nadal di Ignazio e quindi potremmo dire per analogia traslata nel tempo anche di Paolo che era  contemplativus in actione [33].

       L’esperienza unitiva di Paolo con Gesù crediamo che abbia il suo convertice in 2 Cor 12, 7-10, che consideriamo quasi una ripetizione ed un approfondimento da un punto di vista spirituale ed esperienziale di quella che consideriamo essere la vocazione personale di Paolo in Gal 2,20, come abbiamo ricordato e descritto sopra[34].

        In quest’ottica ed in questo contesto di riflessione sintetica sulla mistica apostolica dell’Apostolo delle Genti vogliamo ora riascoltare ed accogliere questa pericope.

        Questo testo ci permette di penetrare profondamente nell’anima di Paolo. Paolo ricorda ai Corinti in questa lettera, “dalle molte lacrime” (2,4), la grazia straordinaria che “un uomo” ha ricevuto quattordici anni prima.

 

1Se bisogna vantarsi – ma non conviene – verrò tuttavia alle visioni e alle rivelazioni del Signore. 2So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo.

7b Per questo, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. 8A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. 9Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. 10Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.

 

        Paolo, nel contesto polemico e apologetico di questa lettera, è costretto a raccontare la propria esperienza di tipo ‘estatico’. L’apostolo lo fa, chiaramente di malavoglia, tentando di nascondere e mascherare la sua persona ed il suo racconto autobiografico dietro la genericità impersonale di “un certo uomo”.  

        Nel proseguimento del racconto Paolo sottolinea come Dio abbia provveduto al rimedio ed all’antidoto a questa esperienza di rivelazione: “Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia” (v.9)[35].

        Paolo si immerge allora, immediatamente, nella preghiera come esperienza di incontro con il Signore per discernere le proprie mozioni interiori. Gradualmente emerge, così, nel profondo del suo essere l’intuizione e l’ispirazione da parte del suo Dio, che lo porta a sperimentare ciò che evidenzia e rivela, in modo evidente, verbalmente. “A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore perché l’allontanasse da me ed egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 12, 8-9).

        Questa asthêneìa fa certo e sicuro Paolo solo della fiducia del suo Signore, ed in questo slancio d’amore formula tutto il programma del suo apostolato. Così può guardare alle sue “debolezze” in relazione esistenziale con la forza di Dio e giungere ad una certezza operativa: “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo…: quando sono debole e allora che sono forte” (2 Cor 12, 9b-10b).

        La “spina nella carne” la possiamo considerare come quell’innesto fecondo che permette a Paolo di vivere ed essere in quella perenne concrocifissione di Gal 2,20, che è la sua vocazione personale, e che lo porta profondamente a vivere e sperimentare il “non sono più io che vivo m aCristo vive in me”.

        Paolo in questo modo può essere quell’ euodìa toû Christoû, quel “profumo di Cristo” (cf 2Cor 2,15), che inebria con la sua cristificazione cristificante il mondo e le persone per le quali il Signore lo ha costituito ed eletto apostolo.

        In questo modo crediamo che il vissuto esperienziale e spirituale, che Paolo ci dona, possa essere quell’esperienza del cristiano di sempre, che vivendo e realizzando la sua cristificazione permanente, che gli deriva dall’immersione battesimale, realizza la sua vocazione personale.     

        Una vocazione personale di cristificazione, che è il frutto e l’approdo continuo e quotidiano di questa unificazione del proprio io con l’Io di Cristo, che Paolo ci comunica e ci testimonia essere la caratteristica precipua e fondamentale di ogni vera ed autentica esperienza di mistica cristiana come unione di amore trasformante.

         In questo modo ogni cristiano ed ogni esperienza cristiana può ricevere il monito e l’invito amico di Paolo: “Fratelli fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1Cor 11,1).

 

 

  1. L’esperienza mistica rende Paolo “buon profumo di Cristo”(cf 2Cor 2,15) nell’annuncio kerygmatico del Vangelo

        Paolo sedotto e conquistato in un rapporto sempre più cristificato di intensa relazione mistica con il Signore Gesù diviene, come lui stesso ci dice nella seconda lettera ai Corinzi, la lettera dalle molte lacrime” (cf 2Cor 4,4) buon profumo di Cristo per coloro che si salvano (cf 2Cor 2,15).

        Il termine euodía, che Paolo usa per rendere il senso del profumo è un termine prettamente paolino.

        Infatti delle tre volte che lo troviamo all’interno del Nuovo Testamento tutte e tre le ricorrenze sono associabili all’uso che ne fa l’Apostolo nel suo Epistolario.

        In particolare in Ef 5,2 Paolo parla dell’essere sacrificio di soave odore in riferimento al sacrificio di Cristo, che ha dato se stesso per noi ed in Fil 4, 18 fa invece riferimento ai doni ricevuti dai cari Filippesi “che sono un piacevole profumo, un sacrificio gradito, che piace a Dio”.

   Questa terminologia paolina del buon profumo di Cristo, che si diffonde per la salvezza o la condanna del mondo è legata fortemente all’effetto trasfigurante dell’assimilazione cristificata dell’apostolo al suo Signore, che diviene cristificante il mondo nella dinamica dell’offerta della propria vita per l’annuncio del Vangelo, che è il Signore Gesù, e la conseguente e relativa missione di portarLo e donarLo a tutte le genti.

        In questo significativo clima esistenziale ed esperienziale si può cogliere allora come per Paolo l’esperienza spirituale unitiva con il Signore e quindi apostolica si realizzi nelle circostanze ordinarie del proprio vissuto attraverso lo svolgersi di quella che possiamo chiamare con la definizione di R.Corriveau[36] la “Liturgia della vita”.

     La pericope nella quale Paolo ci permette di respirare questa tensione spirituale, apostolica e missionaria è senza ombra di dubbio Rm 12, 1-2.

        Con il capitolo 12 ha inizio la parte parenetica della lettera ai Romani[37], che delinea l’orizzonte morale, che scaturisce dalla “Teologia della grazia”, tracciata e delineata da Paolo nel complesso architettonico dottrinale dei capitoli precedenti. Il nuovo stile dell’uomo “trasfigurato” dalla grazia lo porta a vivere in modo intenso il suo ‘hic et nunc’ in modo da renderlo quella “logichè latreia”, sacrificio personale ed esistenziale, che si origina nel battesimo, per la misericordia di Dio, e che permette a tutta la sua esperienza umana e spirituale di essere un riverbero attualizzante e adempiente la volontà di Dio, personalmente, in ogni circostanza concreta.[38]

        Tutta l’esperienza di sequela e missionaria dell’Apostolo delle Genti, abbiamo visto come sia stata caratterizzata dal suo progressivo itinerario di maturazione, che lo conduce ad una continua e sempre più approfondita esperienza spirituale di cristificazione, che è divenuta sempre più cristificante molti.

        Questo itinerario si è, così, lentamente e progressivamente caratterizzato in un cammino esistenziale vissuto nell’ordinarietà della vita percepita e sperimentata come un’autentica e straordinaria Liturgia della vita,

        Il testo fondamentale di questo sentire paolino, dicevamo, è sicuramente la pericope iniziale, formata dai due primi versetti, del famoso capitolo 12 della lettera ai Romani, databile intorno al 58 d.C.:

“Vi esorto dunque, fratelli, in nome della misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come un sacrificio vivente, santo, gradito a Dio, come vostro culto spirituale.  Non lasciatevi uniformare al mondo presente, ma lasciatevi trasformare continuamente nel rinnovamento della vostra coscienza, in modo che possiate discernere che cosa Dio vuole da voi, cos’è buono, a lui gradito e perfetto”.[39]

 

        Siamo, allora  invitati da Paolo a prendere consapevolezza dell’invito esistenziale siglato e formulato in questi due versetti per essere nel di Gesù e nel di Paolo ed accogliere l’invito dell’Apostolo “a farsi suoi imitatori come lui lo è di Cristo” (cf 1Cor11,1) e a donare il Cristo al mondo.

        E’ un invito ad entrare nell’intelligenza del sacrificio del culto spirituale, che è la “liturgia della vita”, che deve far penetrare nello stesso significato etimologico e semantico del termine “sacrificium”, che rimanda al  “Sacrum facere”.

        E’ una chiamata, cioè, a fare sacro, a rendere sacro ogni “qui ed ora” nella logica e nel sentire paolino e biblico del tempo come una somma sinergica di tanti kairòi, di tanti “momenti favorevoli”, che sono ben differenti in qualità e significato da una semplice logica di un tempo continuo e prolungato rappresentato dal fluire dei secondi, dei minuti e delle ore, cadenzati dalle lancette dell’orologio, quale è invece il chrònos.

        Entrare in questo logica del kairòs in una prospettiva oblativa e sacrificale permette di comprendere il significato esistenziale e sapienziale del monito di Qohelet 3, che c’è un tempo (nell’ebraico troviamo il sostantivo ’et ) per ogni cosa sulla terra:

 

“Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire.

Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare.

Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.

Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via.

Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare.

Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace”.

        Ogni momento della vita è unico ed irripetibile per entrare nella logica spazio-temporale dell’offerta della propria concretezza relazionale, del proprio corpo:

 

“Sacrificio ed offerta non hai gradito un corpo mi hai dato allora ho detto ecco io vengo per fare o Dio la tua volontà”. (sal 40,9)

 

        Tutto questo si realizza e si percepisce per Paolo solamente ed esclusivamente nella logica dell’unico suo vanto, che è la croce di Cristo (cf Gal 6,14).

        Per Paolo non c’è altra conoscenza, che non esclusivamente il “non conosco altro che Cristo e questo crocifisso” (1Cor 2,2).

        La logica della Croce e della “Parola della Croce” (cf 1Cor1,18), stoltezza per i greci e scandalo per i Giudei (cf 1Cor 1,23-25), è da sempre operativa esistenzialmente in Paolo, così che per lui non è possibile dire, comunicare e testimoniare del suo rapporto e della sua relazione con il Signore, Maestro e Sposo solo che questo: “non conosco altro che Cristo Crocifisso”.

        Conoscere Cristo Crocifisso è la logica della mistica apostolica paolina.

        E’ allora ancora necessario riflettere in profondità sull’esperienza personale e missionaria da parte di Paolo del suo conoscere Gesù come Signore e Sposo, come è descritto per la Sposa del Cantico nel capitolo 3 e nel capitolo 5,  fino a che lei che non riesca a portarlo “nella casa di sua madre, nella stanza della sua genitrice” (Ct 3,4).

        Nella logica della conoscenza del Cantico, così, il rapporto di Paolo con il Cristo Maestro e Signore Crocifisso si coniuga nelle categorie del “sono malato d’amore” (2,5;5,8).

        Paolo è davvero, in questo modo, l’amante nell’Amato trasformato[40] e può giungere profondamente al “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20) perché è stato conquistato dal Crocifisso Risorto e può divenire ed essere Sì nel Suo Sì d’amore al Padre ed alla Sua volontà:

 

“per conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dei morti” (Fil 3,10-11).

 

        Il Crocifisso Risorto con il suo Sì lo ha sedotto, ha fatto forza ed ha prevalso come Geremia, secoli prima (cf Ger 20,7a), come ricordavamo sopra. E per questo esistenzialmente Paolo sperimenta la stessa comunione orante e liturgico-missionaria alle sue sofferenze secondo 2 Cor 11, 23-27[41]:

 

Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte.

Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi;

tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde.

Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli;

fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità

 

       ed in questo modo  “completa nella sua carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).

Così egli, come abbiamo già visto in precedenza, entra nella logica conoscitiva-sponsale del Sì del Crocifisso Risorto e questo significa per lui penetrare e rimanere nella dinamica esistenziale e spirituale della “spina della carne”, della skòlops [42], nella logica di 2 Cor 12, 7-10[43]:

 

Perché‚ non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché‚ io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché‚ dimori in me la potenza di Cristo”. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.

 

        Paolo è, così, profondamente immedesimato al Cristo Maestro e Signore, che nel Getsemani suda sangue per essere la volontà del Padre sempre, in tutto, con piena adesione ed umiltà, per essere e rimanere in ogni suo “qui ed ora” l’essere e di conseguenza fare la volontà del Padre[44]:

 

       Poi si allontanò da loro quasi un tiro di sasso e, inginocchiatosi, pregava:

‘Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà.

Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo.

In preda all'angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra”: (Lc 22,41-44).

 

        Il Crocifisso suda sangue per essere la volontà del Padre. E’ uno stress, dove le catecolamine producono l’ematoidrosi[45].

        Paolo è immedesimato a questa particolarissima esperienza del Signore Gesù e la completa in qualche modo nella sua originalità ed irripetibilità.

        Il Sì al calice della volontà del Padre non è tolto al Maestro Crocifisso dopo le tre richieste, anzi il Suo Sì deve consentirGli di “alzare il calice della salvezza ed invocare il nome del Signore” (sal 115).

        La spina nella carne  del suo Sì  non è tolta a Paolo, dopo che lo ha implorato per  tre volte (cf v.8), ma invece gli viene chiesto di abbandonarsi all’unico valore ed all’unica certezza che conta e che dà senso, e che libera in pienezza il proprio Sì nel “Più dell’Amore: Ti basta la mia grazia, la mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza…!!!” (v.9).

        Così Paolo con il suo Sì completa nella sua carne debole e fragile l’opera di Dio e custodisce e trasfigura il suo tesoro, il suo Sì, che è in questo “vaso di creta” (cf 2Cor 4,7), che è lui stesso.

        Conoscere Cristo Crocifisso e solo Cristo crocifisso fa, allora, di Paolo un esperto di questa “liturgia della vita” missionaria, sacrificale ed oblativa, in cui è chiamato ad offrire il proprio corpo in un sacrificio vivente nella logica del “Più dell’Amore” (cf sal 40,7-9; Eb 10,5) a vantaggio di molti e per la diffusione del vangelo fino agli estremi confini della terra (cf At 1,8).

        Conoscere Cristo Crocifisso e Risorto, significa divenire ed essere sempre più un sacrificio, un corpo sacrificale, un corpo donato totalmente in un “Più dell’Amore”, che per Paolo diviene e rappresenta un amore particolare, così come ci comunica nel testo del primo capitolo della lettera ai Filippesi:

 

E perciò prego che la vostra carità  si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento, (aìsthesis) perché‚ possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo.

 

        Questo amore (agàpe) deve aumentare non in un semplice discernimento, ma in aìsthesis, cioè in delicatezza, raffinatezza, sensibilità, tenerezza.

 

        L’Amore Crocifisso e Risorto è raffinato, sensibile, delicato ed in questo modo discerne il frammento circostanziato della volontà di Dio in ogni proprio“qui ed ora” sacrificale ed oblativo della Liturgia della vita, che sale al Padre come preghiera intrisa di “profumo di incenso” (cf sal 140): l’incenso esistenziale del Cristo, che vive in noi ed è per eccellenza il  “sacrificio di soave odore” (Ef 5,2).

        Allora, in conclusione, davvero il Sì di Gesù (cf 2Cor 1,19), l’Apostolo per eccellenza del Padre (cf Eb3,1) che Paolo ha incarnato e fatto suo nell’originalità ed irripetibilità del suo Sì di sequela cristificata e missionaria diviene nella logica incarnata della sua vita l’annuncio della conoscenza del Signore Gesù che come profumo diviene sale della terra e luce del mondo (cf Mt 5, 16-16).

 

  1. L’esperienza spirituale come pellegrinaggio di cristificazione si realizza in Paolo nella diakonìa dello Spirito (cf 2Cor 3,8).

        Paolo vive questa tensione missionaria cristificante il mondo come buon profumo di salvezza per molti all’interno di una categoria descritta nella seconda lettera ai Corinzi che crediamo non debba essere dimenticata anzi vada con forza ed incisività sottolineata: la “diakonía dello Spirito”, vergata nel versetto 8 del capitolo 3 di questa  lettera ai Corinzi.

        Nei versetti del capitolo 3 precedenti il nostro Paolo invita i Corinzi  a  penetrare nella nuova economia della berît, dell’alleanza.

        La nuova alleanza di cui l’Apostolo è ministro e mediatore è quella dello Spirito, perché la lettera e l’osservanza cavillosa e legalistica uccide mentre accogliere e fare propria la logica operativa dello Spirito dà la vita (cf 2 Cor3,6).

        Essere ministri e missionari della nuova alleanza, che nello Spirito dà la vita significa essere in un permanente e trasfigurante cammino di passaggio e conversione dal “codice del dovuto al codice del gratuito”[46] perché Paolo si ricorda e ci ricorda che “per grazia sono quello che sono e la grazia di Dio in me non è stata vana” (cf 1 Cor 15,10).

        La logica del gratuito rimanda al testo di Romani 13,10: “pieno compimento della legge è l’amore”, che significa che l’Apostolo, immerso nel mistero dell’amore, in una conoscenza unitiva e sponsale con il Cristo, che lo ha sedotto e conquistato (cf Fil 3,12) e vive in lui, passa nella logica continua della concrocifissione con lui (Gal 2,20) come circoncisione spirituale segno dell’alleanza nuova scritta nei nostri cuori (cf Ger 4,4; 31,31-34), che lo porta alla legge nuova quella del “Più dell’amore”, che si fa davvero aìsthesis: amore delicato, sensibile, raffinato e tenero, che discerne il meglio secondo il cuore ed il pensiero del Cristo che vive in lui (cf 1Cor 2,15-16) per essere amore donato e spezzato in un’azione missionaria ed apostolica associata all’opera redentiva di Cristo, Suo Maestro e Signore.

        Questa diakonía  dello Spirito, che è l’Amore ed il “più dell’Amore”, diviene crediamo sempre più per Paolo evidentemente caratterizzato a livello operativo da una serie di concretizzazioni di questa unica diakonia dello Spirito che potremmo così definire:Diakonía della verità, Diakonía del “portare gli uni i pesi degli altri” (cf Gal 6,2), Diakonía del discernimento, Diakonía dell’affetto, Diakonía delle lacrime.

        La diakonia della verità  è per Paolo divenire, essere e farsi carità della verità.

        E’, cioè, entrare nella logica dell’essere persone libere e liberate dai falsi io, e che sono giunte sempre più al loro “io profondo ed autentico”, dove è la loro verità, il Cristo verità, “intimior intimo meo”, e rendono ragione del Cristo, loro Speranza, che facendogli conoscere la loro verità li fa liberi e li fa capaci di liberare (cf Gv 8, 32) non imponendo nessun falso schema di artificiosa, sterile e sovrastrutturale verità di se stessi, e riescono ad abbattere ogni maschera di falsità, menzogna ed ipocrisia: via diabolica nella nostra vita di relazioni comunitarie e fraterne (cf 2 Cor 11,14).

        La diakonia del portare i pesi gli uni degli altri (cf Gal 6,2) è sempre più entrare nella logica, che se il fratello non mi è peso non lo posso considerare fratello[47], che il Signore mi dona per crescere e maturare insieme in un dialogo di confronto sereno e di provocazione di amore libero ad aprirsi sempre più agli orizzonti di maturità cristificata per cui ciascuno originalmente è fatto e pensato da Dio per l’eternità.

        La  diakonia del discernimento significa ricordarsi il bisogno esistenziale di rivestirsi, come già dicevamo più sopra nel terzo paragrafo, di quell’amore delicato, raffinato, sensibile e tenero, che Paolo canta in Fil 1,9, e che è l’unica sicurezza per giungere a scegliere ed incarnare in ogni nostro “qui ed ora” il meglio ed il “Più dell’Amore”, di cui si riveste la volontà dell’Amore del Padre su ciascuno di noi.

        Così nella sua azione missionaria cristificante Paolo può divenire ed essere nella sua originalità anche quel Maestro di discernimento spirituale della volontà di Dio fino a donare il suo contributo originalissimo intuendo che la volontà di Dio è un dettaglio circostanziato concreto da discernere nell’ordinarietà straordinaria della vita di ogni singolo credente

        La diakonia dell’affetto, attraverso la quale Paolo vuole ricordare ch eil cuore dell’apostolo-missionario è fatto per amare e vivere, in una libertà del cuore sempre più autentica, le dinamiche relazionali con i fratelli nel Signore.

        Queste dinamiche devono allora rivestirsi di sentimenti affettivi, che siano caratterizzati da risonanze di delicatezza, sensibilità, tenerezza e raffinatezza, che rappresentino e siano una permanente schola affectus [48] ai piedi del Maestro, che è Colui che ha “il Cuore mite ed umile” (cf Mt 11,29) e proprio per questo di amare in un amore appassionato tenero delicato ed allo stesso tempo forte, maturo e fecondo. (cf 1 Cor 16, 24: “il mio affetto (agάpe) sia con tutti voi in Cristo”).

        La diakonia delle lacrime, che è la capacità di Paolo di essere nel Gesù, che vive in lui protagonista del verbo splanchnìzomai, con cui gli evangelisti descrivono la commozione empatica di Gesù per le folle, per Gerusalemme per la morte di Lazzaro.

        L’azione missionaria cristificante non può non essere, allora, vissuta, realizzata ed incarnata se non nelle lacrime del “Più dell’Amore” del Gesù, che vive in noi e che diventano l’acqua del catino dove lavare i piedi dei Fratelli e delle Sorelle come il Maestro, Sposo e Signore  ha insegnato e come lo vive e lo fa nell’apostolo di ogni tempo nella sua sempre più continua e trasfigurata cristificazione cristificante Molti, che lo fa essere “il suo buon profumo” (cf 2Cor 2,15).

 

        Paolo si congeda da noi dopo averci permesso di penetrare nuovamente nella sua esperienza di intimità apostolica con il Signore, che conformandoLo a lui, abbiamo più volte detto cristificandolo, lo fa vivere e partecipare di quel suo essere Amore-Agape, che permette a Paolo di consegnarci la sua esperienza spirituale perché possa essere e divenire sempre più anche la nostra, e ci renda come ci ricorda Evagrio il Pontico… Teologi perché persone che pregano (cf La Preghiera, 60)…!!!

 

 

 

[1] Il saggio più completo sull’esperienza spirituale cristiana rimane senza dubbio quello di Jean MOUROUX, L’experience chrétienne, Parigi 1954, nel quale l’autore sagaciamente propone il neologismo esperienziale (expérientiel), che indica specificatamente l’esperienza personale vissuta, unica originale non ripetibile e derivante in modo diretto e consapevole della propria vita spirituale.

[2] “Nella visione antropologica di Ignazio per affecto non si deve intendere la sensibilità esteriore, ma piuttosto l’interiorità più profonda dell’io umano, che si trova al di là della volontà e dell’intelletto, ad un livello di profondità analogo a quello del cuore inteso nel senso biblico. […] La scuola del affecto della Terza Probazione, nella maturazione dell’itinerario spirituale del gesuita, corrisponde, nell’itinerario degli Esercizi Spirituali alla considerazione del terzo modo di umiltà (o di amore (EsSp [167]) o alla Contemplazione per raggiungere l’amore (EsSp [230-237]”: M.COSTA, “Introduzione, versione e note alle Costituzioni della Compagnia” in

Gli Scritti di Ignazio di Loyola, a cura di M. Gioia, Torino 1988, nota 5 p. 547.

Per approfondire questa interessante e provocante tematica si suggerisce di aprire inizialmente il libro di Ch. A. BERNARD, Teologia spirituale, 4a, Cinisello Balsamo 1993, pp. 201-227 oltre che le pagine 241-323 del citato libro di Mouroux. Per approfondire c’ è l’interessante e provocante volume di Ch A. BERNARD, Teologia affettiva, Cinisello Balsamo 1985.

[3] E’ utile approfondire questa tematica della vita spirituale con il prezioso contributo di H. ALPHONSO, “Discernere lo straordinario nell’ordinario: la portata oggi della pedagogia ignaziana negli Esercizi” in Valgono ancora per l’uomo e la donna d’oggi gli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio, a cura di IDEM, Roma 1998, pp. 113-116.

[4] Per approfondire la tematica del silenzio e del deserto si può leggere il contributo di G. TURBESSI, “Deserto”, in Dizionario Enciclopedico di Spiritualità, v. I Roma 1985, 534-540 e F.PIERI, “Deserto” in Dizionario Biblico della Vocazione (a cura di G. de Virgilio) Roma 2007, 189-191.

5 Cf A.CANOPI, Liturgia del Silenzio. L’esperienza mistica alla presenza di Dio, 2a ediz., Casale Monferrato 1998.

6 C. M. MARTINI, Abramo nostro padre nella fede, Roma 1980; IDEM, Bibbia e vocazione, Brescia 1983.

 

 

 

 

[7] Avete perseverato nelle mie prove. Riflessioni sul libro di Giobbe, Casale Monferrato 1990, pp.21-30.

[8] Cf F.PIERI, Giobbe ed il suo Dio. L’incontro scontro con il Semplicemente Altro, Milano 2005.

[9] E’ interessante approfondire questo tema con il contributo di B. MARCONCINI, “Fede” in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, 3a ediz., Cinisello Balsamo 1989, 536-552 e J. ALFARO, “Fides in Terminologia Biblica” Gregorianum 42 (1961) 463-505.

[10] Cf G. SEGALLA, “L’esperienza spirituale nella tradizione giovannea” in La spiritualità del Nuovo Testamento (a cura di R. Fabris) Città di Castello 1985, pp. 354-356; D. MOLLAT, Giovanni maestro spirituale, Roma 1989, pp. 104-107.

[11] Cf  H.WILDEBERGER, “ ’ mn ” in Dizionario Teologico dell’Antico Testamento, v. I, 155-183.

[12] Per approfondire la tematica del kārat berît può essere utile leggere K. WESTERMANN, Genesi, Casale Monferrato 1989, pp.126-132 e R.J.CLIFFORD, “Genesi”,  in Nuovo Grande Commentario Biblico, pp. 26-27.

[13] Cf A.WEISER-R.BULTMANN, “pistéuo” in Grande Lessico del Nuovo Testamento, v. X, 337-488.

[14]  E’ molto utile leggere le pagine del Cardinal Carlo Maria Martini sull’amicizia tra Gesù e Giovanni, fondamento di questa relazione personale,  nel contesto dell’amicizia nel quarto vangelo, nel libro di MARTINI, Il caso serio della fede, Casale Monferrato 2002, pp. 75-87.

[15] Questa di Gv 13,25 è la prima citazione delle cinque in cui l’evangelista Giovanni si definisce come “il discepolo che Gesù amava”. Le altre, come vedremo sono in Gv 19,26; 20,2; 21,7.20. Per approfondire la riflessione è utile anche la lettura di L. PACOMIO, Il vangelo secondo Giovanni. Unità del cuore unità della storia, Milano 1994, pp. 81-87.

[16] G. ZEVINI, “L’esperienza di Dio nel prologo della prima lettera di Giovanni (1 Gv 1,1-4)” ParSpV  30 (1994) 196-214.

[17] Cf  il concetto di fides qua e fides quae proprio della Teologia secondo il quale per fides qua intendiamo la fede biblica di pura ed assoluta adesione alla persona di Dio, come il radicarsi di un albero al suolo per rimanere stabile e pronto a resistere ad ogni mutamento atmosferico, mentre con il termine ed il concetto di fides quae si fa riferimento ai contenuti rivelativi dottrinali formulati dal Credo.

[18] Cf G. SEGALLA, “L’esperienza …” pp. 350-352; G. KITTEL, “akoùo” in Grande Lessico del Nuovo Testamento, v. I, 581-599.

[19] Cf W. MICHAELIS, “orào”  in Grande Lessico del Nuovo Testamento,  v. VIII, 968-971; G. SEGALLA, L’esperienza…”, pp. 344-350.

[20]  Cf W. MICHAELIS, “theàomai – orào” in Grande Lessico del Nuovo Testamento, v. VIII, 968-971, G. SEGALLA, L’esperienza…”, pp. 352-353.

[21] Facciamo riferimento alla interessante definizione e descrizione della Lectio divina di Carlo Maria Martini: “In realtà, la comprensione più profonda del rapporto preghiera-vita si esprime nel prolungamento logico e tradizionale della triade lectio, meditatio, contemplatio. Quando la meditatio suscita in noi per la grazia dello Spirito Santo, la contemplatio del mistero di Cristo, ne segue quell’effetto della presenza dello Spirito che la Scrittura chiama “paraclesi”. E’ la consolazione, una gioia profonda, non necessariamente sensibile ma vera ed autentica, del mistero divino. Il cuore si dilata perché ha intuito una scintilla di quel mistero che spesso ci è difficile, estraneo ed oscuro. Dalla consolatio nasce quello che Paolo, nelle sue lettere dalla prigionia, indica come discernimento o discretio. L’esperienza della paraclesi dona la capacità cristiana di capire che cosa, nella propria vita, nel mondo, nella storia, corrisponde al disegno di Dio e che cosa, al contrario vi si oppone. Questa capacità di discernere ciò che è secondo la mente di Cristo e ciò che non lo è (cf. Rom 12; Col 1), non deriva da un ragionamento o da un processo deduttivo ma proprio da un’intrinseca connaturalità, da una vera esperienza di Dio. La discretio suscita la deliberatio che è la capacità di scegliere, tra le diverse azioni possibili della nostra vita, quelle che sono secondo il Vangelo: nella pastorale, in ciò che devo dire o tacere, nel consiglio, nella confessione, nel rapporto con le persone, nei problemi più gravi di carattere disciplinare riguardanti la realtà e la società. Spesso sarà deliberazione di studiare, di prendere i mezzi opportuni, di fare attenzione, di approfondire una determinata situazione senza darla per scontata: tuttavia si tratta di una deliberazione che porterà ad agire secondo il Vangelo. L’agire secondo il Vangelo, dunque, è frutto di una deliberazione interiore, fatta alla luce di un discernimento che parte da una consolazione interna frutto di una contemplazione della Scrittura”: Popolo in cammino, Milano 1983, 20-21.

[22] Per una lettura esegetica più precisa rimando alle pagine 181-184 del mio recente libro L’itinerario di cristificazione di Paolo di Tarso. Caratteristiche di una esperienza di Dio, Roma 20112.

[23] Il sostantivo «skύbalon» è un hapax legomenon paolino. Il suo significato forte ed incisivo sta ad indicare tutto ciò che è il risultato ed il frutto del processo metabolico e fisiologico, ottenuto durante le peristalsi gastriche ed enteriche insieme al processo di assorbimento dei villi intestinali negli esseri viventi. Lo Zerwick lo traduce insieme alla Vulgata con «stercus». (Analysis Philologica Novi Testamenti Graeci, 4a ed., Romae 1984).

[24] Cf la pagina di Gen 15 dove Dio stipula l’alleanza (kārat berît) con Abram  secondo il rito nomadico del passare attraverso gli animali uccisi e divisi a metà ed invocando su di sé la morte se non fosse rimasto a questa alleanza. E la pagina di Gen 17 dove Dio chiede ad Abramo il segno della circoncisione come risposta e collaborazione ad un’alleanza bipolare e non solamente unilaterale.

[25] Cf la pagina di Gen 32, 23-33 dove Giacobbe per chiedere a Dio la benedizione ingaggia con lui un combattimento nel quale Dio sì benedice Giacobbe cambiandogli il nome in Israele: “Ti chiamerai Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto”, ma al termine di questo combattimento Giacobbe-Israele lascia lo Iabbok passando a Penuel zoppicando perché Dio lo ha ferito all’anca…!!!

[26] La storia di Giuseppe è raccontata nei capitoli 37-50 del libro della Genesi. All’inizio è caratterizzata dal suo essere rivestito dal padre Giacobbe a diciassette anni dalla “tunica dalle lunghe maniche”, segno della primogenitura data a lui undicesimo nato. Questo chiaramente crea nell’adolescente Giuseppe quell’orgoglio sciocco e superbo, che dovrà essere purificato da quasi venti anni di “notte oscura”: dalla vendita dei fratelli fino alla schiavitù in casa di Potifar e poi nella prigione del Faraone, per giungere attraverso l’interpretazione dei sogni del Faraone ad essere rivestito della vera tunica segno della sua autentica e realizzata vocazione ad essere davvero “colui che cerca e trova i suoi fratelli” (cf Gen 37,16). La tunica dell’autorità di vicerè di Egitto con la quale soccorre la fame dei fratelli e del padre Giacobbe e sazia la vera fame che era il ritrovamento e l’istaurarsi di una vera fraternità amica e comunionale.

[27] G. ALBERIONE, Donec formetur Christus in Vobis. Meditazioni del Primo Maestro, Alba- Roma 1932, p. 64.

[28] “Apostolo è colui che porta Dio nella sua anima e lo irradia attorno a sé. Apostolo è un santo che accumulò tesori; e ne comunica l’eccedenza agli uomini. L’Apostolo ha un cuore acceso di amore a Dio ed agli uomini; e non può comprimere e soffocare quanto sente e pensa. L’Apostolo è un vaso di elezione che riversa, e le anime accorrono a dissetarsi. L’Apostolo è un tempio della SS. Trinità che in lui è sommamente operante. Egli, al dire di uno scrittore, trasuda Dio da tutti i pori: con le parole, le opere, le preghiere, i gesti, gli atteggiamenti; in pubblico ed in privato; da tutto il suo essere. Vivere di Dio! e dare Dio”: G. ALBERIONE, Ut perfectus sit Homo Dei, Roma 1961, v. IV, pp. 277-278.

[29] Per approfondire questa è bene poter andare ad alcuni studi specifici tra i quali: J. HUBY, La Mistica di S.Paolo e di S.Giovanni, Firenze 1950; A.WIKENHAUSER, La Mistica di San Paolo, Brescia 1958; ATENAGORA dello SPIRITO SANTO, “L’esperienza mistica” in Spiritualità Paolina (a cura di E.Ancilli) Teresianum s.d., pp266-295; R.PENNA, “Problemi e natura della Mistica paolina” in La Mistica. Fenomenologia e riflessine teologica (a cura di E.Ancilli e M.Paparozzi) Roma 1984, v.1; pp.181-221.

[30] Cf R. PENNA “La seconda Lettera ai Corinzi”, in AAVV, Le Lettere di Paolo, Casale Monferrato 1981, p. 95.

[31] BERNARD Ch. a., San Paolo mistico e apostolo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000.

[32] M.COSTA, “Ignazio di Loyola: l’itinerario spirituale” in C.M.MARTINI – M.COSTA –F.BROVELLI, Guide nel deserto, Milano 1993, p.155.

[33] Questa espressione, “contemplazione in azione”, è diventata famosa grazie ad un famoso brano degli Scritti di P. Gerolamo Nadal, stretto collaboratore e compagno di sant’Ignazio di Loyola. In questo brano il Nadal sottolinea e ricorda le grazie di preghiera concesse ad Ignazio: “Tale modo di pregare fu concesso a Padre Ignazio per mezzo di un privilegio grande e molto speciale; ed anche quest’altra grazia, che in tutte le cose, azioni e conversazioni egli sperimentava e contemplava la presenza di Dio, e aveva una sensibilità raffinata per le realtà spirituali – essendo contemplativo nella sua stessa azione (“simul in  actione contemplativus”). Il suo modo preferito di esprimere questo era: bisogna trovare Dio in tutte le cose” (Annot. In Examen, c. 4: Mon. Nadal V, pp. 162-163).

Per ulteriori approfondimenti rimando al mio libro: Paolo di Tarso e Ignazio di Loyola. Testimoni e Maestri del Discernimento Spirituale, Roma 2002.

[34] Chiaramente sappiamo bene che cronologicamente la redazione di Galati è oggetto di variegate supposizioni: Noi optiamo in sintonia con l’opinione di Padre Vanni per il 56/57 durate il Terzo viaggio missionario di Paolo. In questo modo considerando che la redazione della seconda Lettera ai Corinti può essere collocata con discreta tranquillità intorno al 57, ecco che l’affermazione riportata da noi sopra di una quasi possibile ripetizione non dovrebbe essere poi considerata troppo forzata…!

[35] “La conoscenza di questo pungiglione nella carne si è perduta già nelle prime generazioni cristiane. Gli scrittori ascetici occidentali, a cominciare da Gregorio Magno, fondandosi sulla versione volgata stimulus carnis, hanno pensato a tentazioni contro la castità. Altri, fin dall’antichità, hanno pensato alle persecuzioni mosse contro l’Apostolo soprattutto da parte dei suoi connazionali (Crisostomo), o a qualche malattia (Basilio). Oggi si pensa a qualche malattia cronica che viene variamente diagnosticata; le ipotesi più attendibili riguardano febbri malariche contratte nell’asia minore (Ramsay), o qualche oftalmia acuta, male frequente in oriente per effetto della polvere sotto i dardi del sole”. P.ROSSANO, “Lettere ai Corinzi”, in AA.VV., Lettere di san Paolo, a cura di IDEM, 7a ed., Cinisello Balsamo 1998, p.222. Cf. anche K.L.SCHMIDT, kolajizw in GLNT ,V, coll. 751-756.

[36]  Cf R.CORRIVEAU, The Liturgy of Life. A  Study of the Ethical Trought of St. Paul in His Letters to the Christian Communities, Bruxelles-Paris-Montréal 1970.

[37] Cf. il “parakalô”  iniziale di Paolo e O.SCHMITZ, “parakaleo” in GLNT, IX, coll.660-666.

[38] Cf.R.CORRIVEAU,The Liturgy of Life…, pp.177-180;  U.VANNI, “Il Discernimento della volontà di Dio secondo Paolo” in AA.VV., La guida spirituale nella vita religiosa, Roma 1986, pp.95-107 e V.MANNUCCI, “Lettera ai Romani”, 43.

[39] Traduzione di U.VANNI, in Lettere di Paolo, a cura di P. Rossano, 7a ed., Cinisello B. 1998,330-331. Alla quale abbiamo preferito aggiungere l’interpretazione data da F.BLASS-A.DEBRUNNER, Grammatica del greco del Nuovo Testamento, 2a ed., Brescia 1997, §314, ai due imperativi del versetto 2: syschematizesthe e metamorphousthete, resi al passivo e non solamente al medio.

[40] “Notte che mi hai guidato, notte più gentile dell’alba, o notte che hai unito l’Amato con l’amata, l’amata nell’Amato trasformata sul mio petto fiorito che per te solo avevo custodito rimase addormentato e io lo vezzeggiavo alla brezza leggera. L’aria degli alti torrioni quando scioglievo i suoi capelli. Dimentica di me quei legami il volto reclinato sulla mano tutto cessò e mi staccai da me abbandonando i miei pensieri in mezzo ai cedri”: GIOVANNI DELLA CROCE, La notte oscura, quinta strofa.

[42] “La conoscenza di questo pungiglione nella carne si è perduta già nelle prime generazioni cristiane. Gli scrittori ascetici occidentali, a cominciare da Gregorio Magno, fondandosi sulla versione volgata stimulus carnis, hanno pensato a tentazioni contro la castità. Altri, fin dall’antichità, hanno pensato alle persecuzioni mosse contro l’Apostolo soprattutto da parte dei suoi connazionali (Crisostomo), o a qualche malattia (Basilio). Oggi si pensa a qualche malattia cronica che viene variamente diagnosticata; le ipotesi più attendibili riguardano febbri malariche contratte nell’asia minore (Ramsay), o qualche oftalmia acuta, male frequente in oriente per effetto della polvere sotto i dardi del sole”. P.ROSSANO, “Lettere ai Corinzi”, in AA.VV., Lettere di san Paolo, a cura di IDEM, 7a ed., Cinisello Balsamo 1998, 222. Cf anche K.L.SCHMIDT, “kolaphizô” in GLNT ,V, coll. 751-756.

[43] “…Nous prendrons l’un des textes qui nous permet peut-etre de pénétrer le plus profondément dans l’ame de saint Paul et se trouve formuler en termes particulièrement incisifs la loi meme de tout apostolat ( 2 Cor 12, 7-10): S.LYONNET, Initiation à la Doctrine Spirituelle de Saint Paul. Dix Méditations sur le texte des Epitres, Paris 1963, 5.

[44] Cf il motto della scolastica: agere sequitur esse. Non esiste fare se non come conseguenza dell’essere.

[45] Nel racconto dell’episodio del Getsemani secondo l’evangelista Luca, il “caro medico di Paolo” (Col 4,14), ci racconta che il sangue di Gesù cadeva come gocce (tròmboi) di sangue per terra.

[46] Cf G. BARBAGLIO, “Psicologia” (“VI. Il mondo interiore di Paolo”) in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, a cura di P.Rossano,G.Ravasi, A.Girlanda, Cinisello Balsamo 1988, 1269.

[47] Cf D. BONHOEFFER, la Vita Comune, capitolo quarto, Milano 1980.

[48] Rimando alle pagine 15-17 del mio libro sopra citato: La cristificazione… .