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Jeu, Mar

La parabola del padre e dei suoi due figli, a volte conosciuta come “Parabola del figliol prodigo” altre volte del “Padre misericordioso” visto che si trova nel contesto delle “parabole della misericordia” (cfr. Lc 15), è un testo sicuramente molto conosciuto da tutti, però oggi vorrei proporvi una lettura un po’ diversa, guardando i tre personaggi a partire della tipologia o stili comunicativi. Si tratta, infatti, dei tre comportamenti che tradizionalmente caratterizzano la comunicazione interpersonale e che possiamo – in modo stereotipato ovviamente – collegare ai nostri tre personaggi della parabola: il padre e i suoi due figli.

Il primo è lo stile aggressivo, quello che comunica in modo ostile, oppositivo, critico…, “aggressivo” appunto. Questo è lo stile comunicativo di uno che fa in modo che i propri bisogni o esigenze siano soddisfatte a ogni costo. Uno che dice, ad esempio: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta» (Lc 15,12), rientra in questa categoria. Con questo atteggiamento, il figlio più piccolo non si apre al dialogo, ma comunica soltanto quello che vuole per la propria soddisfazione. Neppure durante la sua esperienza traumatica e di sofferenza riesce (da solo) a cambiare il proprio comportamento comunicativo. Il testo biblico ci dice che lui «avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla» (Lc 15,16). Magari ha trovato davanti un altro comunicatore aggressivo, e così la comunicazione è diventata difficile. Direi di più: anche quando il figlio più piccolo, apparentemente pentito, pensa a quello che dirà al padre tornando, troviamo qualche traccia di una comunicazione impositiva, perché è sempre lui che vuole avere il controllo e imporre le sue esigenze: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati» (Lc 15,18-19). Non sappiamo (ancora) se è una vera conversione o soltanto una strategia per raggiungere il proprio obbiettivo di uscire dalla situazione di disagio, visto che il suo “io” rimane sempre al primo posto.

Dall’altra parte abbiamo il figlio più grande, un chiaro comportamento chiamato passivo. Questo stile comunicativo caratterizza le persone che non riescono ad affrontare positivamente le situazioni: «Egli si indignò, e non voleva entrare» (Lc 15,28). Descrive gli individui che mettono da parte le proprie esigenze, diritti, desideri; che in principio ascoltano, ma non riescono a interagire, a interloquire, a manifestare i propri bisogni o intenti: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici» (Lc 15,29). Con questo atteggiamento si sottomettono agli altri senza dialogare. Non comunicano liberamente perché temono il giudizio degli altri.

Infine abbiamo lo stile comunicativo chiamato assertivo, quello che rivela la capacità di esprimere ed esigere i propri diritti senza dimenticare o negare i diritti degli altri. Questo tipo di comunicatore riconosce e rispetta la dimensione della reciprocità. Il tipo assertivo manifesta, infatti, una comunicazione diretta, chiara, onesta ed esattamente per questo riesce a promuovere l’uguaglianza e il rispetto nei rapporti umani. Nella nostra parabola, il padre è prototipo del comunicatore “assertivo”, quello maturo, che risponde adeguatamente in base al contesto relazionale. Il padre «lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò, quando era ancora lontano» (cf. Lc 15,20). Il padre ascolta e cerca il dialogo, agisce nel modo migliore possibile, creando ponti, promuovendo l’incontro, l’unità. Il padre aiuta i due figli (il comunicatore passivo e quello aggressivo) ad essere comunicatori efficaci e a trovare la “comunione”, che è il senso e l’obiettivo originario e fondamentale della comunicazione (dal latino communicatio, cioè, “azione di mettere in comune”, “creare comunione”).

Il padre, che prima “divise tra loro le sue sostanze” per soddisfare uno dei figli, adesso aiuta entrambi i figli a migliorare i loro modi di comunicare. Questo è possibile soltanto perché il padre è misericordioso, appunto, ma anche perché lui, come comunicatore assertivo, ha una buona autostima; ha una buona conoscenza di sé e delle modalità per esprimere le proprie idee e bisogni; ha consapevolezza delle capacità e dei limiti umani e riesce a trasmetterli tutti serenamente agli altri: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,31-32).

Con il suo stile assertivo, dialogico, sereno, il padre riesce a trasformare entrambi i figli. Adesso il figlio più piccolo riconosce veramente che ha peccato e che non è più degno di essere chiamato figlio, cioè, lascia l’io in secondo piano davanti all’alterità del padre. E sono sicuro che il figlio più grande, anche se il testo biblico non lo dice espressamente, si è trasformato, è entrato in casa e hanno potuto “cominciare a far festa” (cfr. Lc 15,24). Che il Padre ispiri anche ognuno di noi ad essere comunicatori sempre più assertivi e proattivi.

 

* Darlei Zanon, discepolo paolino brasiliano, è Consigliere generale.

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