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Thu, Apr

Il termine "diaspora" designava i diversi territori fuori della Palestina, dove erano stati "dispersi" (ciò significa il termine greco diasporà) gli ebrei, a motivo di varie situazioni (sconfitte militari, persecuzione religiosa, commercio, ecc.). In questi territori (soprattutto l’Egitto e la Siria) prevaleva la cultura ellenistica con le molteplici scuole di pensiero e di filosofia, come gli stoici, i cinici, gli epicurei, per nominare solo quelli che avranno un particolare influsso nel linguaggio e nella forma letteraria dell’epistolario paolino.

Gli stoici derivavano il loro nome dal termine greco stoà, che indicava un "colonnato" o un "portico", utilizzato per svariati e molteplici scopi (uffici pubblici, tribunale, negozi, luogo d’incontro per una scuola). In Atene essi si incontravano presso il "portico" (stoà) "dipinto". Il cuore della filosofia stoica era il Logos ("la ragione universale"), grazie al quale uomo e universo sussistevano. Ciò favoriva una profonda unità tra il mondo celeste e il mondo terrestre e tra gli stessi uomini (che erano considerati fratelli e sorelle), costituendo un unico corpo vivente sotto lo sguardo della divinità. In At 17,28 – proprio ad Atene – Paolo non esita a citare il poeta stoico Arato, che affermava l’origine dell’umanità in Dio («Di lui stirpe noi siamo»). Una simile concezione del mondo si accordava molto bene con gli imperi e le città cosmopolite dell’epoca ellenistico-romana e contribuiva a consolidare unità e compattezza. Lo stoicismo non apriva un orizzonte o una speranza di vita dopo la morte, tuttavia, attraverso una rigorosa e disciplinata ascesi interiore ed esteriore, esortava a identificarsi con il Logos, la ragione divina che tutto avvolgeva, uomo e cosmo.

Paolo, nelle sue lettere, ricorre al linguaggio degli stoici, forse accoglie anche una certa terminologia nel descrivere l’opera e la presenza di Dio nell’universo. Essendo il filosofo Seneca un esponente di questa corrente filosofica, la prima cristianità ha steso un apocrifo su una presunta corrispondenza tra Seneca e Paolo, dove emergono affinità linguistica e di pensiero. Ciò che più inserisce Paolo nella "cornice" linguistica dello stoicismo è il richiamo frequente che egli fa nelle sue lettere alla presenza di Dio nel mondo (come nella lettera ai Romani), intesa però non come "immanente", ma "trascendente" (Dio e mondo sono presentati da Paolo come Creatore e creatura, non come entità unica, al pari dello stoicismo). Anche il concetto di autarchia unisce linguisticamente Paolo e lo stoicismo. Ma, mentre per gli stoici questa "autarchia" è sufficienza o sfida alla divinità (soprattutto alla "fortuna" o alla "necessità", in greco, tyche e ananche), per Paolo è invece la dichiarazione e l’affermazione della creaturalità dell’uomo, che in tutto dipende da Dio e si apre alla "pienezza" della sua provvidenza paterna e materna.

Lo stesso linguaggio militare, che viene utilizzato da Paolo, si ispira alla concezione che della vita hanno gli stoici. Essi intendevano il combattimento come il mezzo per conquistare e mantenere la piena padronanza di se stessi per non cedere di fronte alle alterne vicende e agli sbalzi della fortuna e del caso. Per l’apostolo Paolo anche l’equipaggiamento del cristiano nella lotta contro il male e il peccato si ispira a quello del legionario romano, ma le sue sono "le armi dello spirito". Queste si identificano, sì, con le armi di difesa e di attacco dei legionari (cintura, elmo, scudo, corazza, spada, lancia), ma il loro significato è da cogliere a un livello superiore. Infatti a ciascuna di queste armi Paolo collega un particolare dono di Dio: la cintura è la "verità", la corazza è la "giustizia", lo scudo è la "fede", l’elmo è la "salvezza", la spada è la "parola di Dio" (cf Ef 6,13-17). Non si tratta, perciò, di reprimere se stessi e di mantenersi impassibili di fronte alle vicende della vita, ma di conservarsi in uno stile cristiano di vita che viene vivificato dalla grazia dello Spirito Santo e dalla lotta quotidiana contro il male e il peccato.

I cinici. Anche questo nome affonda le radici nella sua etimologia. In greco kyon è il "cane", l’animale che questi filosofi ("cinico", infatti deriva da kyon) avevano assunto come modello di vita a motivo della sua essenzialità (senza casa, senza vestiti, senza particolari esigenze, assuefatto ad ogni alimento e ad ogni clima). Il loro fondatore, Diogene di Sinope, era l’esemplare di questa essenzialità: viveva in una botte, portava con sé una comune ciotola e si serviva del solo mantello come vestito e come casa.

I cinici erano noti per la loro "predicazione itinerante" e per la loro "parresia". Quest’ultima caratteristica (la "parresia", che troviamo spesso anche negli scritti di Paolo e negli Atti degli Apostoli) consisteva nel denunciare apertamente i mali della società e in un atteggiamento arrogante verso i destinatari della loro predicazione. Nella seconda lettera ai Corinzi Paolo prende le distanze da questi predicatori "itineranti" con i quali i destinatari di quello scritto pretendevano di identificarlo, accusandolo di cercare il proprio tornaconto. Infatti questi predicatori passavano di città in città a insegnare la loro dottrina e a formare adepti. Spesso essi ricorrevano alla violenza, all’estorsione e al plagio. Paolo ama distinguersi – e se ne fa un punto di onore – da tutti costoro, dichiarandosi unicamente "apostolo" di Cristo e "servo" del Vangelo, preoccupato della sola salvezza degli altri (e non dei loro beni e delle loro ricchezze).

La "parresia" (cioè l’audacia e la libertà di espressione) di Paolo non era originata da un’arrogante sicurezza di sé o dalla capacità di essere autonomo e indifferente nei confronti della società (come i cinici), quanto piuttosto dalla chiara consapevolezza che egli aveva di essere stato "chiamato" da Dio e "inviato" come "apostolo" di Cristo. E la sua predicazione non aveva come centro la legge naturale o l’ascetismo fine a se stesso o fonte di autarchia (come presso i cinici e gli stoici), ma il Vangelo, e con il Vangelo una persona, Gesù Cristo.